I “Fuori categoria”: Peter Gabriel – Peter Gabriel IV

Anno di pubblicazione: 1982

Produttori: David Lord e Peter Gabriel

Foto di copertina: Malcolm Paynter

È il 1974. I Genesis, una delle band più celebrate del movimento progressive degli anni ’70, ha appena dato alle stampe The Lamb Lies Down On Broadway, un doppio album monumentale per energia profusa, per complessità di arrangiamenti e per varietà dei testi. Sembra che al quintetto di ex collegiali inglesi niente sia precluso, invece alla fine del gigantesco tour che ne seguì Peter Gabriel, frontman e cantante del gruppo, decide di abbandonare i compagni.

Tante sono le ipotesi e le versioni circa il distacco dai Genesis, sta di fatto che da questo momento Gabriel comincia a scrivere il primo capitolo della sua carriera da solista, senza timore di assumersi tutti i rischi di tale scelta.

I primi tre album, Peter Gabriel I, Peter Gabriel II e Peter Gabriel III, mostrano un artista che lentamente tenta di staccarsi dal cordone ombelicale del Prog dei suoi ormai ex colleghi, ma che resta pur sempre ancorato ad un certo tipo di pop rock. Una curiosità: la Geffen, etichetta americana che si occupa della distribuzione, non riuscendo a digerire la mancanza di un titolo degli album, li battezza rispettivamente Car, Scratch e Melt, facendo più che altro riferimento all’immagine di copertina.

A partire dal quarto album, Peter Gabriel IV, (Security per la Geffen) entra in scena in maniera preponderante uno strumento che segnerà un’epoca all’interno della musica pop: il Fairlight CMI, il primo (costosissimo) campionatore della storia, capace di registrare un frammento sonoro e poi riprodurlo tramite una normale tastiera musicale.

Gabriel riesce ad accaparrarsene uno e ne fa un uso completamente diverso rispetto ai colleghi dell’epoca: infatti, mentre la gran parte di loro si limita ad utilizzarlo come un “giocattolo costoso” per lo più per ispessire i pieni orchestrali, la sua scelta è quella di iniziare un lavoro certosino alla ricerca di suoni inconsueti. Memorabile è il documentario South Bank Show nel quale Gabriel illustra l’utilizzo del campionatore all’interno di una discarica, registrando il suono degli oggetti più disparati: un esempio su tutti il campionamento dello sfascio di uno schermo di televisore, con incluse le risate del musicista, che non riesce a trattenersi, mentre si adopera nell’azione distruttiva!

Altro aspetto preponderante dell’album, a detta dello stesso autore, è l’abbandono dei 4/4 tipici della musica occidentale in favore di ritmiche sincopate: nel citato documentario Gabriel è ripreso intento a registrare ore e ore di performance estemporanee di artisti africani, invitati presso lo studio di registrazione.

Ma veniamo alle tracce dell’album.

Una serie di rumori sotterranei, frutto di assemblaggio certosino con il Fairlight, rappresenta l’incipit di The Rhythm Of The Heat, e già dall’incedere ansimante del brano si percepisce angoscia e tensione. Lo squarcio della sola voce, quasi un urlo fuori dal tempo e dallo spazio, apre ad una nota gigantesca di synth ed ad una alternanza di forti e piano delle percussioni. Il testo del brano prende spunto dagli scritti di Carl Jung sul suo viaggio nell’Africa settentrionale, dalla contrapposizione tra l’uomo civilizzato, schiavo del tempo e del progresso, e le civiltà tribali, libere da schemi e guidate dal cuore anziché dal cervello (...Spacca la radio – Non c’è voce esterna qui – Spacca l’orologio – Non puoi spaccare il giorno a brandelli – Spacca la macchina fotografica – Non può rubare le anime – Il ritmo è intorno a me – Il ritmo ha il controllo – Il ritmo è dentro di me – Il ritmo ha la mia anima…) L’insieme sonoro di percussioni che segue queste parole è impressionante per intensità e pathos.

Il background della successiva San Jacinto è costituito solamente da un frammento musicale su nastro (probabilmente riprodotto in loop sul Fairlight), su cui Gabriel canta la disperazione e la tenace ostinazione dei nativi Americani: così il rito di iniziazione del giovane pellerossa, che volontariamente si fa mordere dal serpente e tenta di raggiungere il villaggio in preda alle allucinazioni, diventa il grido di dolore di un popolo ormai estinto. Il ritornello, con chitarra distorta in primo piano, esalta al massimo le parole del testo. Sorprendente il finale, dall’atmosfera rarefatta e inquietante, con poche note di tastiera che sorreggono la voce del cantante.

I Have The Touch, dal suono estremamente asciutto, al limite dell’asettico, racconta della necessità di contatto per sottrarsi ad una progressiva alienazione dal mondo (…L’ora che preferisco è quella di punta, perché mi piace accelerare – Lo spintonare della gente – Mi piace tutto – Come una massa di movimento – Non so dove porta – Mi muovo col movimento ed io ho il tocco…) Il brano è virato verso un rassicurante 4/4, ma l’ossessività delle figure ritmiche richiama sonorità tribali.

L’apertura di The Family And The Fishing Net, un mosaico di note eseguite al flauto, ci consegna il pezzo più oscuro dell’album, una sorta di rivisitazione in chiave voodoo del rito del matrimonio. Tutto il brano evoca paura e tensione continua, sorretto dalla batteria con il riverbero rovesciato e da continue sferzate della chitarra elettrica di David Rhodes, che avvolgono il testo criptico e ricco di suggestioni visive piuttosto forti.

E’ il momento di Shock The Monkey, uno dei pezzi più celebri dell’artista, un connubio perfetto tra le sonorità tribali del disco e la musica pop-rock. La scimmia a cui allude Gabriel altro non è che la metafora della gelosia che assale l’essere umano e l’ansia che ne deriva.

La successiva Lay Your Hands On Me sembra riprendere il tema della ricerca del contatto di I Have The Touch ed è giocato su un interessante incastro di percussioni che si alternano ad un altro puzzle di suoni generati dal Fairlight. Il testo della strofa è recitato, quasi un rap ante litteram, per poi sfociare, dopo un lungo lancio, verso l’apertura melodica del ritornello. Le due sezioni del brano si alternano in modo netto, creando una sorta di frattura evidente e assolutamente geniale.

Il solo pianoforte introduce con poche e delicate note Wall Of Flower, brano dedicato ai desaparecidos argentini. L’atmosfera, caso unico nell’album, è dilatata, quasi eterea, mentre la voce intona note intrise di tristezza, ma con la promessa di non consegnare le loro storie al silenzio: …Potrai scomparire, ma qui non sarai dimenticato – e io ti dico che farò quello che posso – che farò quello che posso – che farò quello che posso.

In chiusura, Kiss Of Life, che, con una metrica inconsueta, 10/4, e una ritmica incalzante, sembra riportare un raggio di sole al termine di un viaggio nell’abisso profondo del subconscio, degli istinti primordiali, dei dolori e delle miserie dell’essere umano, quasi a volersi svegliare da una seduta di ipnosi.

Peter Gabriel IV è ancora oggi, a quarant’anni esatti dalla sua pubblicazione, un album che riesce a stupire: attraverso l’uso della tecnologia, per l’epoca molto avanzata, e il ricorso al ritmo ossessivo delle musiche tribali, questo artista è riuscito a raccontare le angosce più primitive dell’uomo, consegnandoci una pietra miliare della storia della musica pop.