Il Progressive Rock italiano: Banco del Mutuo Soccorso – Darwin!
Anno di pubblicazione: 1972
Casa discografica: Ricordi
Produttore: Alessandro Colombini
Disegno di copertina: Wanda Spinello
Foto di copertina: Cesare Montalbetti
A 50 anni esatti dall’uscita (dicembre 1972) mi fa piacere dedicare questo spazio a “Darwin!”, secondo album in studio del Banco del Mutuo Soccorso, tra gli esponenti di maggiore spicco del Rock progressive italiano. “Darwin” è un concept album che racconta l’evoluzione del mondo e della vita, a partire dagli albori della formazione della Terra, passando poi per la nascita delle primordiali forme di vita, successivamente evolute in organismi sempre più complessi, fino ad arrivare all’apparizione dell’uomo, con la conseguente assunzione di una propria coscienza e sensibilità. La narrazione è tenuta insieme da una trama musicale che fonde il progressive rock di ispirazione anglosassone con il lirismo tipico della tradizione nostrana, firma stilistica inconfondibile del Banco.
L’uomo rappresenta il punto (apparentemente) più alto di questo processo evolutivo, e i testi dell’opera risolvono ben presto, già all’interno del primo brano L’evoluzione, l’eterna dialettica tra teorie evoluzionistiche e creazioniste, tra scienza e fede: “…Niente da grandi dei fu fabbricato, ma il creato s’è creato da sé: cellule, fibre energia e calore…”; “…Adamo è morto ormai, e la mia genesi non è di uomini ma di quadrumani”. Il caos del brodo primordiale è accompagnato dall’alternarsi di groove incalzanti e degli obbligati della sezione ritmica (Pierluigi Calderoni alla batteria, Renato d’Angelo al basso, Marcello Todaro alle chitarre) insieme alle linee di sintetizzatore e le tastiere dei fratelli (Vittorio e Gianni) Nocenzi. La poesia delle liriche e dei temi vocali di Francesco Di Giacomo fa da voce narrante alle varie tappe di questa evoluzione, una vera e propria suite progressive rock della durata di oltre 14 minuti che si conclude con la narrazione della comparsa della vita sul pianeta: “Alto, arabescando, un alcione stride sulle ginestre sul mare. Ora il sole sa chi riscaldare”. La danza dei grandi rettili, fa da intermezzo strumentale, uno swing medio su tempo ternario che evoca efficacemente il pesante passaggio sulla Terra degli antichi pachidermi che dominarono la preistoria. Si passa da La conquista della posizione eretta alle prime forme di socializzazione e costruzione di gerarchie in Cento mani e cento occhi: se, da una parte, l’uomo ha sempre sentito il bisogno, fin dall’inizio della sua presa di coscienza, di creare delle strutture sociali e di condivisione (“la nostra forza è in cento mani e cento occhi fanno a noi la guardia”), dall’altra questo rappresenta un limite alla libertà individuale (“ma la voglia di fuggire che mi porto dentro non mi salverà”). Si arriva poi alla scoperta dei sentimenti nella struggente ballata 750.000 anni fa…l’amore?, in cui il connubio tra il pianoforte di Gianni Nocenzi e la voce di Di Giacomo portano letteralmente l’ascoltatore ad immedesimarsi nella sofferenza di un ominide che acquista consapevolezza del suo aspetto, e di conseguenza prende atto dell’impossibilità di poter avere la donna (probabilmente appartenente ad una specie umana ad uno stato evolutivo più avanzato) a cui rivolge i suoi pensieri d’amore. Il dolore è ancora più cocente in quanto lo “scimmione senza ragione” non ha ancora neanche sviluppato un linguaggio per poter esprimere e comunicare tali sentimenti (“la mente vuole, ma il labbro inerte non sa dire niente”). La storia si snoda in avanti, fino ad epoche in cui l’uomo sarà tecnologicamente più avanzato, ma non realmente evoluto, in quanto ancora cieco di fronte ai pericoli che può portare la sfrenata corsa al progresso. Da qui la riflessione sul senso stesso e sulla fine dell’esistenza umana in Miserere alla storia, gridata con rabbia: “Ma… quanta vita ha ancora il tuo intelletto, se dietro a te scompare la tua razza?”. D’altra parte, tutte le opere dell’ingegno umano non potranno che risultare insignificanti e caduche di fronte allo scorrere inesorabile del tempo; il brano Ed ora io domando tempo al tempo ed egli mi risponde… non ne ho! chiude l’album: una ballata dall’aria popolare, scandita dal cigolio di una ruota che gira (“Ah la ruota va…”) e che l’uomo non può fermare o rallentare.