Ironia e malinconia, divertimento ed eleganza: semplicemente Gianfilippo Boni

Se è vero che le nostre recenti e future proposte di ascolto ci condurranno a giro per il mondo attraverso i continenti, in un itinerario musicale volto a cogliere i legami tra la musica e le sue radici geografiche e culturali, “scavare in casa” alla ricerca del talento nostrano non può che riempirci di soddisfazione.

Se poi l’artista in questione, con estrema disponibilità e gentilezza, ci regala un po’ del suo tempo consentendoci di conoscerlo meglio e di potervelo raccontare, non possiamo che esserne entusiasti.

Stiamo parlando di Gianfilippo Boni, cantautore e produttore artistico fiorentino, ormai da molti anni punto di riferimento dell’underground musicale toscano.

Ciao Gianfilippo, ci fa molto piacere conoscerti personalmente ed avere l’occasione di presentarti ai nostri lettori. Vogliamo cominciare questa chiacchierata partendo dal tuo incontro con la musica e dai tuoi esordi?

Volentieri. Ho iniziato a studiare pianoforte a 8 anni per volontà di mia madre, a dire il vero io non ero molto convinto, anche perché lo studio dello strumento passava attraverso la musica classica e non ne ero particolarmente preso. Poi, ancora ragazzino, mi capitò di ascoltare due dischi, Come è profondo il mare di Lucio Dalla, e Via Paolo Fabbri 43 di Francesco Guccini. Contenevano brani che con un bambino di quell’età avevano poco a che fare e che fecero gridare allo scandalo la mia nonna paterna, però mi piacevano e mi appassionai allo studio delle canzoni da autodidatta, cercando di replicarle sullo strumento. In parallelo allo studio classico cominciai a prendere lezioni di piano moderno seguendo il metodo per pianoforte pop/rock di Walter Savelli. Nel frattempo ascoltavo i grandi cantautori, De Gregori, Battiato, De André…

Facendo un bel salto temporale, diversi anni dopo, a 18 anni, il mio maestro di allora mi propose di sostituirlo per un paio di domeniche in un locale fiorentino, l’Oberon, in Via dell’Erta Canina: per 40.000 lire andai totalmente allo sbaraglio! Me lo ricordo ancora: al primo piano un palo per la lap dance, al secondo io, completamente solo, a fare pianobar.

Da lì iniziai con le serate e ti racconto subito un aneddoto: una volta di quelle, suonavo all’aperto, mi si avvicinò un ragazzino, avrà avuto dodici o tredici anni, “Ma tu ci sei anche domani sera?” mi chiese ed io annuii, “Allora domani non vengo…” Capisci che se non ho mollato allora, niente avrebbe più potuto farmi desistere!

E la carriera professionale vera e propria quando è iniziata?

Ormai ero entrato nel giro dei locali, suonavo cinque sere su sette, e accanto all’intrattenimento arrivò anche la voglia di scrivere dei pezzi miei, all’inizio in modo molto ironico. Una sera, mentre mi esibivo in un ristorante in Piazza Santo Spirito, mi ascoltò Paolo Boffo, manager e produttore che all’epoca seguiva gruppi come i Dirotta Su Cuba. I miei pezzi gli piacquero e decise di investire su di me, cominciando a promuovermi presso le case discografiche. Boffo prese contatti con Bruno Mariani (n.d.r. chitarrista, arrangiatore e produttore artistico, sia per Dalla che per altri artisti come Carboni, Bersani, ecc.) che lavorò al mio primo album Cinema a metà degli anni Novanta. Il disco piacque molto in BMG (ex RCA), ma ci fu tutta una serie di problemi per così dire extramusicali; in parallelo avevo anche scritto un pezzo molto ironico Babbo Natale che era piaciuto alla Warner, ma anche lì, per logiche che nulla hanno a che vedere con la musica, il pezzo fu bloccato. Alla fine, ma era già passato un annetto da quando il disco era stato prodotto senza riuscire ad iniziare un percorso di distribuzione discografica, approdammo alla Fonit Cetra che decise di investire sul disco 100 milioni di vecchie lire. E lì ebbe inizio la mia carriera professionale.

Quali sono gli artisti che più hanno influenzato la tua formazione?

I cantautori italiani mi sono sempre piaciuti un po’ tutti: Dalla, Guccini, De Gregori, Rino Gaetano… ma non ho disdegnato neanche la musica rock; tra l’altro, facendo pianobar, dovevo comunque essere costantemente aggiornato un po’ su tutto.

Il tuo secondo album Con Le Zanzare è del 2003, diversi anni dopo il primo…

Sì, ho fatto dischi più o meno ogni otto anni. Con Le Zanzare è uscito a distanza di molto tempo sia perché ho sempre scritto solo quando sentivo di avere qualcosa da dire, sia per un altro motivo. Dopo Cinema, avevo già un contratto con la Fonit Cetra per altri due dischi, ma ero sotto contratto anche con il mio primo produttore, cui dovevo tantissimo; alla Fonit dissero che volevano gestirmi senza di lui, che a quel punto fece valere il suo contratto portandomi via. Il mio secondo disco quindi uscì molto tempo dopo con un’etichetta più piccola, la Tumtumpa’ dello stesso Boffo. Ovviamente la visibilità fu molto inferiore rispetto al primo album: all’epoca la Fonit Cetra aveva fatto un’ottima promozione, avevo avuto passaggi in televisione, anche nel programma Aria Fresca di Carlo Conti… questa volta la televisione non c’era più.

Quindi scelte discografiche e logiche commerciali e di produzione hanno inciso tantissimo sul proseguo della tua carriera, a prescindere dalla qualità dei tuoi brani.

Ci sono congiunture che possono favorirti o sfavorirti enormemente e che poco hanno a che fare con il lato artistico di questa professione. In ogni caso mi ritengo molto fortunato perché quando uscii con il mio primo disco comunque ho avuto il mio bacino di successo, la gente mi riconosceva, firmavo autografi… e mi è bastato perché ho capito, e mi sento molto a posto in questo senso, che di fatto non è che quel “successo” mi desse una grandissima felicità. La felicità me l’avrebbe data continuare a scrivere quello che mi piaceva, ma già avevo visto che le canzoni potevano essere smembrate più e più volte per seguire logiche di mercato, portandoti via da quello che eri: la durata standard radiofonica dei 3 minuti, il ritornello dopo 40 secondi, alla fine le canzoni non mi sembravano neanche più mie.

Ora come ora io sono molto contento di suonare dal vivo, di fare i pezzi che mi piacciono e in tutta onestà a me va bene così, perché comunque io alla fine vivo di musica e per me questa è la cosa fondamentale.

Poi arriviamo al 2015 e al tuo terzo album Gianfilippo Boni

Sì con la produzione artistica di Lorenzo Forti, collega e amico che ho sempre stimato tantissimo come grande musicista e talento musicale. Peraltro, anch’io dal 2000 avevo intrapreso l’attività di produzione artistica, in parallelo a quella di cantautore, producendo tantissimi cantautori della scena musicale toscana. Ma quando sono arrivati i pezzi per l’album del 2015, avevo comunque bisogno di un occhio critico esterno, di qui la collaborazione con Lorenzo.

Cosa puoi dirci di questa tua seconda veste?

Quello del produttore artistico è un ruolo molto gratificante, ma assorbe davvero tantissime energie. Di fatto c’è una differenza fondamentale rispetto al passato quando c’era un manager che sceglieva un artista e il produttore artistico era un professionista che veniva pagato direttamente dalla casa discografica. In quella logica, l’autore non entrava più di tanto nel merito degli arrangiamenti, certo poteva dire il suo parere e apportare il suo contributo, ma poi le scelte finali erano rimesse al produttore artistico. Oggi le case discografiche non investono più ed è il cliente stesso a pagare il lavoro, con la conseguenza che il produttore artistico non può imporsi fino in fondo con l’autore che però talvolta non ha l’esperienza sufficiente lato arrangiamenti e il risultato finale, nell’autoproduzione, rischia di non essere così qualitativamente pregevole.

Di fatto finisci per dover essere anche un po’ psicologo, perché l’autore arriva dopo aver messo tutto se stesso nelle sue canzoni, e devi riuscire a gestire anche il carico emotivo del disco.

Un’esperienza bellissima vissuta in questa veste è stato il progetto The Dreamers, che ha visto coinvolto un gruppo di ragazzi disabili, che si sono incontrati e divertititi a scrivere e suonare sotto la guida di artisti come Nada, Cristina Donà, Cesare Basile, Paolo Benvegnù, Erriquez e Riccardo Tesi, per citarne solo alcuni.

Tornando alla veste di cantautore, come nascono le tue canzoni, quali sono le tue fonti d’ispirazione?

Sono nato come cantautore ironico, prendendo spunto da aspetti della società che mi colpivano, quindi il processo creativo soprattutto all’inizio era stimolato dall’esterno; con gli anni, la leva è diventata sempre più autobiografica, nel senso che il pezzo nasce dal mio vissuto, ed è anche per questo che faccio un album ogni otto, nove anni; poi quando è il momento i brani vengono da soli, testo e musica insieme, in modo del tutto estemporaneo. La maturazione è piuttosto lunga, la scrittura quasi di getto. Ad esempio, il mio pezzo che ha avuto più successo, Van Gogh è nato alle 4:00 di notte, dopo aver fatto pianobar per tutta la sera. Qualche mese prima mi era capitato tra le mani un libro di mia madre sui dipinti di Van Gogh, lo avevo sfogliato poi non ci avevo più pensato, e settimane dopo sono uscite musica e parole.

L’impressione all’ascolto è che nella tua musica coesistano due anime: una più scanzonata e ironica e un’altra molto più malinconica ed intima. Talvolta, proprio come in Van Gogh la musica ti porta in una direzione, il testo in un’altra. Concordi con questa lettura?

Assolutamente, di recente per esempio con Pieraccioni mi sono divertito a buttare giù due accordi e ne è uscita una “cosa” scanzonata (ndr Il Vendemmiatore); però i brani malinconici e riflessivi mi appartengono di più, o quanto meno mi ci continuo a riconoscere più a lungo nel tempo.

Tra i tuoi brani ce n’è qualcuno cui sei più legato?

Sì, saranno in tutto una decina e te ne accorgi quando fai la scaletta per un concerto: sono quelli che vuoi fare sempre.

Qual è il tuo rapporto con i social?

A dire il vero non sono mai stato particolarmente “social”, ma ho capito che ormai sono diventati uno strumento imprescindibile per noi autori, per avere un contatto diretto e un feedback immediato. Poi c’è un altro aspetto di cui all’inizio della carriera non mi curavo particolarmente e che invece ho realizzato cammin facendo, e cioè il fatto che chi ascolta si affeziona anche alla persona e il rapporto non si gioca esclusivamente sul lato musicale. Quindi i social possono essere un modo per stabilire una sintonia con la gente, l’importante è essere autentici, nella propria musica come nella vita ed io cerco di esserlo sempre.

Come ultima domanda: cosa ti senti di consigliare ai giovani cantautori che si affacciano adesso sulla scena musicale?

Al giorno d’oggi ci sono due strade: i talent, con tutto ciò che ne consegue nel bene e nel male (possibilità di grandissima visibilità ma anche di altrettanto rapida discesa), oppure armarsi di santa pazienza e grandissima passione, andandosi a prendere il proprio pubblico ad uno ad uno, sfruttando le risorse del web e piano piano sperare di farsi notare.

Giunti al termine di questo piacevolissimo incontro, non ci rimane che ringraziarti per la tua disponibilità, per averci dato modo di conoscerti e di raccontare un po’ di te. In attesa di poter presto ascoltare i tuoi nuovi progetti ed assistere a futuri concerti, non resta, nel frattempo, che lasciar parlare la tua musica.