Matteo Urro: una vita fra la musica

Chitarrista, dotato di una voce intensa e di una scrittura autentica, per molti aspetti inedita, che niente ha in comune con quell’omologazione musicale odierna cui le nostre orecchie si stanno purtroppo abituando: stiamo parlando di Matteo Urro, apprezzato musicista dell’under-ground fiorentino, che gentilmente ha accettato l’invito ad intrattenersi un po’ con noi e a raccontarci la sua storia.

Come in tutte le buone narrazioni, rifacciamoci dall’inizio: quando è nata la tua passione per la musica?

Sono stato molto fortunato perché in casa mia c’è sempre stata tanta musica. I miei genitori erano dei veri appassionati, avevano una collezione di vinili, mi portavano al Teatro Comunale e ai concerti di musica da camera, come a quelli dei grandi cantautori italiani: nel ‘75, ancora in carrozzina, ero con loro al concerto di Fabrizio De André, nell’82, a 9 anni, a quello di Battiato. La musica mi è stata praticamente iniettata.

E poi? Quando è scoccato il colpo di fulmine per la chitarra?

Nell’88 un mio carissimo amico mi dette una cassetta dei Led Zeppelin; io fino ad allora avevo ascoltato la musica classica, i Beatles, i cantautori italiani, la musica degli anni ‘80… Per me fu una vera e propria rivelazione: la potenza di quell’ ascolto, a 14 anni, fu come se si fosse spalancato il cielo! Tuttora i Led Zeppelin continuano ad essere la mia band di massimo riferimento, ad un livello quasi viscerale.

Da lì la voglia di suonare la chitarra. Mio padre me la regalò per la Pasqua di quello stesso anno e fu proprio lui ad insegnarmi i primi accordi: poi passai all’elettrica ma, per quanto si trattasse di una grandissima passione, per me rimaneva comunque un hobby anche quando, verso i vent’anni, cominciai a suonare nelle prime bands.

E il canto?

Diversamente dalla chitarra, che ha avuto il suo percorso di fascinazione, di studio e scoperta, per me cantare è sempre stato naturale. In casa mia cantare era una cosa normale, come mangiare o camminare. Ho sempre cantato, prima nel coro polifonico della parrocchia, poi nei gruppi in cui militavo come chitarrista.

Agli inizi degli anni ‘90 non era facile trovare cantanti e ancora meno riuscire a gestirli – solitamente erano piuttosto egocentrici – perciò quasi sempre, nei gruppi in cui suonavo, finiva con questa frase: “Matteo, canti tu per favore, che facciamo prima?” Questo è stato il mio esordio come cantante!

In che momento l’hobby si è trasformato in lavoro?

Fino al ‘96 la musica è stata una passione che, una volta entrato nel mondo del lavoro, ho affiancato all’attività di grafico. Inizialmente la mia intenzione era quella di fare solo pezzi originali, mi interessava fare cose mie e l’ho fatto principalmente con due progetti che si sono avvicendati a partire dagli anni ‘90.

Il primo di questi mi ha visto militare in una band che si chiamava Pandora insieme ad altri musicisti fiorentini, uno fra tutti Bernardo Baglioni, che poi ha suonato con Noemi e altri artisti.

Con questa formazione andammo in televisione nella trasmissione Roxy Bar di Red Ronnie e vincemmo il concorso per gruppi emergenti. Quello con i Pandora era un progetto pop-rock che si prefiggeva l’obiettivo di fare musica rock orecchiabile e vendibile nel mercato italiano, cosa che credo sia, dopo la ricerca di una miniera d’oro o di diamanti, l’operazione più difficile che si possa fare in Italia!

Per alcuni anni provammo a bussare alle porte delle case discografiche, anzi, ad essere precisi, furono loro a bussare alla nostra porta ma non riuscimmo a trovare un punto di incontro. Dopo demo, registrazioni e tentativi vari, nel 2003 decisi che per me quell’esperienza era finita, senza peraltro avere idee particolari per il futuro. Caso volle che in quel periodo venissi contattato per un altro progetto che aveva intenzioni diverse, più libere.

Si trattava di un power trio che, devo dire, è sempre stato un po’ il mio sogno: tante bands che mi hanno appassionato erano dei power trio: Jimi Hendrix, i Cream, i King Crimson all’epoca di Red, che è uno dei dischi che più amo in assoluto, i Police… Quella dimensione mi aveva sempre affascinato. Con questo power trio, gli Underfloor, abbiamo inciso due dischi autoprodotti che ancora considero tra le cose migliori che ho fatto.

Che genere facevano gli Underfloor?

Un rock psichedelico con richiami al progressive; un sound a volte anche duro però sempre con l’intenzione di aperture: non si trattava di suites, i pezzi però dovevano avere un respiro ampio, con uno sviluppo libero.

Com’è andata questa seconda esperienza?

Ad un certo punto sono sorte divergenze creative e di intenti inoltre, nel 2008, si aggiunsero problemi familiari e la difficoltà nel riuscire ancora a conciliare musica e lavoro, perciò decisi di appendere la chitarra al chiodo e dedicarmi interamente all’attività di grafico. All’epoca lavoravo nell’editoria che sfortunatamente fu uno dei primi settori ad essere colpiti dalla crisi economica: il lavoro cominciò ad andare male, fu un periodo difficilissimo, di grande stress, che oltretutto arrivava dopo un grave lutto. Nel 2012 la situazione lavorativa era ormai diventata insostenibile e a quel punto decisi di darmi interamente al mestiere di musicista.

Suonare per mestiere significava cambiare completamente ottica: mi rimisi a studiare, perché fino ad allora ero stato praticamente autodidatta. Iniziai quel percorso accademico che non avevo fatto in precedenza. Il talento non basta, ci vuole tanto studio, perciò mi sono rimboccato le maniche e pian piano mi sono costruito una piccola credibilità nell’ambiente fiorentino, per cui poi ho cominciato a lavorare come musicista professionista..

Cantante, chitarrista, autore: c’è, fra queste dimensioni, una che senti più tua, che in qualche modo ti definisce più delle altre oppure sono tutte inevitabilmente inscindibili?

È una domanda interessante alla quale credo sia giusto dare una risposta di tipo storico-musicale.

Prima, negli anni ‘60-’70 nei gruppi cantavano tutti, c’era il frontman ma nelle bands, dai Beatles fino ai nostri Pooh, erano tutti cantanti. Oggi come oggi la formazione musicale tende all’iperspecializzazione quindi, ad esempio, è più difficile trovare cantanti che suonino anche strumenti o che comunque si propongano per entrambe le cose. Volendo provare a rispondere mi definirei un cantante chitarrista rock.

Il tuo mestiere ti porta sia ad esibirti live sia a lavorare in studio. Hai preferenze per l’una o l’altra attività?

Pur piacendomi entrambe ho una lieve predilezione per il lavoro in studio, che permette di essere molto creativi e offre tante possibilità. È come la tavolozza di un pittore: puoi sperimentare, creare, e quello che fai rimane “agli atti”, dandoti un riscontro oggettivo che ti può servire anche in seguito. Quella del live è la dimensione del qui e ora, esiste solo nel presente; fra l’altro, dal vivo, capitano situazioni in cui il suono non è esattamente come lo vorrebbe il musicista e, da questo punto di vista, indubbiamente lo studio offre una gratificazione maggiore.

Veniamo a Un posto dove stare, l’album che hai pubblicato nel 2020, e iniziamo dall’involucro. La copertina è una tua creazione: perché hai scelto questa immagine?

È stata una scelta sia estetica che concettuale: estetica, perché è uno scatto che mi piace molto, è una foto di un quartiere di Berlino est, con palazzi con una certa austerità e severità. Concettuale, perché io sono cresciuto nel cemento, in un quartiere di palazzoni, la dimensione urbana nella mia vita ha sempre avuto un peso notevole, influendo sulla mia crescita di essere umano.

La ricerca di Un posto dove stare, per quanto mi riguarda, parte da lì, magari anche per uscirne, però il punto di partenza è quello. È una copertina che mi rappresenta, perché rappresenta la dimensione in cui sono cresciuto.

Come sono nati i pezzi?

Il disco si è sviluppato in due diversi periodi. L’inizio risale al 2011, con l’embrione del brano Andare non andare: la musica l’ho scritta in mezz’ora, invece mi ci sono voluti anni per rifinire il testo di cui inizialmente avevo in testa solo l’incipit e il ritornello.

Poi, in ordine più o meno cronologico, sono venute Il mio terrore, È tutto al contrario e Oscure danze. I primi 4 pezzi sono rimasti un po’ lì, d’altra parte non avevo alcuna pressione sui tempi e per me era fondamentale che i brani raccontassero esattamente quello ciò che volevo esprimere, è stato un lavoro di cesello molto lungo.

Verso il 2017 traslocai e lì ebbi un altro tipo di ispirazione. Sono venuti fuori gli altri brani: Al centro, che parla del luogo in cui ero andato a vivere, L’aria sta cambiando e Non scomparire, dedicata al lutto di cui parlavo prima: l’avevo in mente da anni e, in quel nuovo contesto, riuscii a darle finalmente forma. Discorso diverso va fatto per La neve, la cui musica, come l’inizio del testo, mi frullava nella mente dalla nevicata di Firenze del 2010.

A quel punto mi resi conto di aver fatto un disco e che era arrivato il momento di lasciare andare canzoni che mi suonavano in testa da tanti anni. Un po’ per ragioni economiche e un po’ perché non avevo idee chiarissime da poter trasmettere ad altri musicisti, ho fatto tutto da solo tranne che per l’intervento di Lorenzo Forti al basso, che ha dato una forma più definita e concreta agli arrangiamenti.

Si tratta quindi di pezzi scritti nel tempo, anche a molta distanza l’uno dall’altro eppure, ascoltandoli, si ha la sensazione di un fil rouge che li unisce: un senso di malessere, di malinconia, di fragilità, incertezza esistenziale, quasi una sorta di concept album.

Tranne per l’ultimo pezzo, La neve, che chiude il disco con uno slancio, uno sguardo più positivo sul mondo, mi sono reso conto di aver fatto un disco con una sua coerenza, perché queste canzoni esprimono emozioni e concetti che da anni sentivo il bisogno di esprimere: il mio senso di inadeguatezza nei confronti del mondo, le sconfitte che avevo vissuto e una domanda ricorrente: qual’è il mio posto nel mondo?

Credo di averlo espresso in maniera completa con questo disco e per questo posso considerarlo un capitolo chiuso e anche felicemente, perché sono contento di come è venuto. Nonostante siano canzoni scritte oramai da diversi anni, si tratta di brani che continuano a rappresentarmi.

Il processo creativo di scrittura nel tuo caso parte quindi quasi sempre dalla musica per poi arrivare al testo?

Per ogni pezzo sono partito da una frase e anche adesso continuo ad appuntarmi frasi che mi arrivano di getto e che sono sicuro, prima o poi, potrò inserire in un brano. Però in genere sì, prima parto dalla musica e mentre suono deve succedere qualcosa: quando accade lo registro e, se mi comunica quel quid, vado poi a svilupparlo. Ma questa seconda parte dipende molto dalla mia motivazione.

Stai continuando a scrivere e a lavorare su nuovi progetti?

Al momento no, e c’è una ragione. Anche se il processo creativo non si ferma mai, manca l’intenzione; per quella ci vuole una motivazione che al momento non ho, anche per ragioni culturali. Credo che il modo di fare musica che io proporrei sarebbe un po’ alieno al mondo d’oggi. Perciò non sono spronato al farlo.

Corre a questo punto l’obbligo di chiederti come vedi l’attualità musicale…

Una cosa che ho imparato lavorando in studio, soprattutto con gli Underfloor, è di non accontentarsi mai, almeno finché non senti che la cosa che stai facendo è autentica, che ha una sua vita, che respira da sola, che non fa il verso a nessuno. Il che non significa non avere riferimenti, quelli ci sono ed è giusto che ci siano, ma è fondamentale che quello che fai sia tuo, devi ascoltarlo e poter dire “Io sono questo, con la mia storia, il mio background”.

Quello di cui mi resi conto, approcciandomi al mondo della discografia italiana, era l’assenza di ricerca della genuinità; al contrario occorre somigliare a qualcosa che già esiste, essere un ingranaggio del meccanismo. Già ai tempi dei Pandora non capivo il senso di certe richieste: “Va bene ma non va bene, mi piace la tua voce ma devi cambiarla, mi piace la tua musica ma devi cambiarla, mi piace come sei ma devi essere diverso…”

Negli anni ‘70 i discografici investivano sugli artisti, promuovevano due, tre dischi, finché l’artista non trovava la propria identità, il proprio percorso. C’erano i Genesis che vendevano poche copie ed erano fantastici e c’erano i Bee Gees che erano bravissimi e vendevano milioni di copie, ed esistevano entrambi; con i dischi che vendevano tanto la discografia ripagava quelli che vendevano poco ma che erano di artisti incredibili. Invece, negli ultimi trent’anni, si è assistito alla distruzione della ricerca dell’identità. Anche più di recente, sono venuti fuori ragazzi bravissimi, con talenti enormi, ma rischiano di bruciarsi troppo presto perché non hanno alle spalle un percorso artistico, fatto anche di sbagli e imperfezioni; questo perché non si vogliono più prodotti artistici ma prodotti di consumo.

Ringraziandoti per la tua disponibilità, vogliamo chiudere questa bella chiacchierata con una domanda che per noi è oramai quasi di rito: cos’è per te la creatività?

La creatività è la possibilità di dare alla vita un respiro più ampio e di darle un senso di essere vissuta.