I “Fuori Categoria”: Freddie Mercury, “Larger Than Life”

Ritratto a matita di Gabriele Guerrini

Dal 29 novembre 2018, data di uscita del film “Bohemian Rhapsody”, ad oggi considerato il biopic musicale di più grande successo nella storia del cinema, sono stati scritti fiumi di parole sui Queen e in particolare su Freddie Mercury, generando, insieme alla pellicola, una vera e propria “queenmania” non tanto nei fans della prima ora, che certo non ne avevano bisogno, ma anche, incredibilmente, nei giovanissimi. Così sul web spopolano i filmati dei loro concerti, i making off di alcuni dei loro pezzi più celebri. Le vecchie interviste ai quattro membri della band e quelle più recenti a Brian May e Roger Taylor, gli unici due ancora attivi, ricevono decine di migliaia di visualizzazioni (John Deacon si è ritirato a vita privata dalla metà degli anni Novanta e, anche in questi ultimi anni di rinnovata fama, si è mantenuto ben lontano dai riflettori)

Sono uscite nuove pubblicazioni, monografie, biografie, praticamente sono stati scritti articoli su tutto quello che poteva essere scritto.

Per questo la scelta iniziale era stata quella di non parlare dei Queen e del loro carismatico frontman; cosa rimaneva ancora da dire? Ma oggi, a trent’anni esatti dalla sua scomparsa, avvenuta il 24 novembre 1991, ci è parso giusto ricordare questo meraviglioso artista, la cui “maschera” è stata talvolta indagata più delle sue qualità di musicista e persino di performer.

Impossibile cercare di raccontare l’uomo. Come dichiarato dagli stessi May e Taylor, in un’intervista rilasciata alla BBC a pochi giorni dalla scomparsa dell’amico, nessuno in fondo poteva dire di conoscerlo veramente: così diversa la sua immagine pubblica, eccentrica, provocatoria, insofferente e persino talvolta arrogante, da quella dell’uomo timido, gentile e riservato, descritto dalla cerchia dei suoi “fedelissimi”. “The great pretender”: non solo titolo del famoso brano reinterpretato dallo stesso Mercury nel 1987, ma anche perfetta sintesi di un uomo che ha voluto offrire al mondo un altro sé.

Non ho intenzione di essere una star, io sarò una leggenda”, ebbe a dichiarare ancora illustre sconosciuto; ma al personaggio pubblico, sicuro di sé, eccessivo e irriverente, si contrapponeva, fuori dai riflettori, un uomo riservato e schivo, estremamente geloso della sua privacy. Detestava farsi intervistare, uno dei pochi fortunati a riuscire più volte nell’impresa è stato il giornalista ed amico David Wigg.

Superfluo raccontare il frontman. Dai primi concerti negli anni ‘70 (storiche le esibizioni londinesi nel novembre del 1974 al Rainbow Theatre e quella all’Hammersmith Odeon, la vigilia di Natale del 1975) fino all’ultimo live con i Queen a Knebworth Park il 9 agosto 1986, decine e decine di riprese sono lì, a testimoniarne la capacità di catturare e trascinare l’audience come pochi altri nella storia del rock.

Sulla sua voce, inconfondibile e straordinaria, è stato scritto di tutto, divenendo addirittura oggetto di analisi spettrografiche da parte di un gruppo di ricercatori europei: dall’estensione al registro vocale (un baritono, ma, per certi aspetti, con caratteristiche simili alla voce femminile di soprano); dalla velocità del vibrato all’uso delle subarmoniche…tutto è stato approfondito, sviscerato.
E si resta quasi increduli nell’apprendere come, all’indomani dell’uscita di Tim Staffell dagli Smile, band dalle cui ceneri emerse la Fenice dei Queen, i dubbi di Brian e Roger sul “reclutamento” di Freddie riguardassero per l’appunto la sua voce: “Roger ed io pensavamo che fosse un bravo showman ma non eravamo certi delle sue qualità tecniche vocali” (dal documentario “Freddie Mercury, The Untold Story”). Ancora, in una recente intervista rilasciata a Rick Beato, lo stesso May ha raccontato: “Era un uomo che si è fatto da sé. Quando siamo entrati per la prima volta in studio e ha cantato con noi dal vivo …. devo dire che era piuttosto fuori controllo. Anche lui lo sapeva. Correva in giro urlando, mettendosi in posa e tutte quelle cose lì, ma la voce era dappertutto……. Freddie disse, ‘… così non è buono abbastanza. Non voglio “suonare” così.’ Ha riprovato ancora e ancora e ancora e ci ha lavorato, si è ascoltato e si è modellato in quel cantante” (“quel cantante” è riferito da May all’interpretazione in Bohemian Rhapsody).

Per chi, come chi scrive, si è imbattuto nell’ascolto di un brevissimo estratto dei Wreckage, interpretato da un giovane Freddie, militante in quella band sul finire degli anni ‘60, non può che risultare sorprendente come quella voce immatura, quasi tremolante, solo pochi anni più tardi si sia trasformata nello strumento potente, meravigliosamente versatile e assolutamente in controllo che tutto il mondo ha conosciuto.

Ma la cifra che insieme alle altre qualità ben note, e forse più di tutte le altre, ci restituisce appieno il talento di questo artista è lo straordinario eclettismo compositivo ed interpretativo, ancora probabilmente non sufficientemente evidenziato, nonostante tutta l’attenzione mediatica che la sua persona, o meglio il suo personaggio ha da sempre suscitato.

Se è vero che tutta la produzione musicale dei Queen è assolutamente poliedrica, la scrittura di Freddie esprime appieno quella voglia di sperimentare, di oltrepassare i confini tra generi, la voglia di divertirsi e non ripetersi che lo ha contraddistinto fin dall’esordio.

Sostenuto da un perfetto senso del tempo, in pratica un metronomo vivente a detta di Taylor e May, e da una solida tecnica pianistica, (la sua postura, invece, avrebbe scandalizzato qualsiasi insegnante di pianoforte, alla vista del polso sinistro più basso della tastiera, ma alla fine cosa importa?) non si può non restare colpiti dalla capacità di passare da un genere ad un altro e più spesso di mixare stili e sonorità tra loro diversi, con assoluta disinvoltura.

Così dalla sua penna sono usciti brani come Ogre Battle (Queen II, 1973) a metà tra progressive rock ed heavy metal (dove anche il riff di chitarra, decisamente hard, porta la firma di Mercury); The March Of The Black Queen dello stesso album, pezzo rock la cui complessità compositiva (oltre sei minuti, con continui cambi di sonorità e di ritmo) lo candida a precursore di Bo.Rhap.; la sofisticata Killer Queen, sospesa tra pop e glam rock, (Sheer Heart Attack, 1974).

Per non dimenticare le incursioni nel vaudeville, a raccontarci la passione di Freddie per il Music Hall, con canzoni come Bring Back That Leroy Brown, sempre dallo stesso album, la brevissima Lazy On A Sunday Afternoon, in cui la voce solista ci arriva distorta come da un megafono degli anni ‘20, per finire con Seaside Rendezvous, nato come un divertissement a quattro mani con Roger Taylor, in cui i due ricreano ed inventano suoni usando legni, ditali da cucito e la voce a sostituire gli ottoni, (entrambe da A Night At The Opera, 1975).

E ancora, le digressioni nel jazz come in My Melancholy Blues (News Of The World, 1977) che, in occasione di uno show al Madison Square Garden nel dicembre del 1977, fu dedicato ad Ella Fitzgerald, presente tra il pubblico.

Sintesi estrema della capacità di combinare stili e generi diversi, quasi un pastiche, uno scherzo musicale supportato da un certo grado di follia, è The Millionaire Waltz (A Day At The Races, 1976), che vede la successione di ben 8 sezioni nel giro di 5 minuti e in cui il genio stravagante di Mercury la fa da padrone: walzer, ballata, rock, con continui cambi di tempo.

Tutto questo limitandosi solo a pochi esempi, alcuni dei quali sicuramente meno noti rispetto ai greatest hits, ma che da soli bastano a dare la misura del talento compositivo del Musicista Freddie Mecury. 

Aspetto ancora più sorprendente è la versatilità vocale ed interpretativa che accompagnava questo talento: perché quello che davvero lascia ammirati, non è tanto l’estensione o la potenza vocale di cui molto si è scritto e parlato, forse anche perché di più facile e immediata constatazione, ma la disinvoltura e l’apparente semplicità con cui, di volta in volta, la sua voce riusciva a rivestirsi degli elementi interpretativi e vocali richiesti dai singoli brani e dai diversi generi, una capacità unica che lo rese l’incredibile performer che tutti conosciamo.

Probabilmente la testimonianza più vera di tutto ciò, ci è stata fornita dal “Freddie Mercury Tribute Concert For Aids Awareness”, tenutosi al Wembley Stadium il 20 aprile 1992, al cospetto di una folla oceanica. Bellissima l’iniziativa di “celebrare la vita, il lavoro, e i sogni dell’unico e solo Freddie Mercury” (queste le parole di esordio di un commosso Brian May), encomiabile il voler dare risalto alla piaga dell’AIDS in anni in cui i malati di questa sindrome venivano fortemente stigmatizzati, ma quando i partecipanti all’evento, stars internazionali note in tutto il mondo, la cui vocalità e il cui talento certo non sono da mettere in discussione, si cimentarono nei pezzi dei Queen, fu lampante l’estrema difficoltà nel restituire una performance che potesse qualitativamente avvicinarsi all’originale.

Unica eccezione l’esecuzione di Somebody To Love di George Michael a ricordare, in termini di intensità vocale ed interpretativa, la straordinaria caratura di Freddie Mercury, “lover of life, singer of songs”, cui, nel nostro piccolo, anche noi, oggi, vogliamo rendere omaggio.

Qui lo riascoltiamo nel breve medley live  estratto dal citato concerto all’ Hammersmith Odeon, del 24 dicembre 1975:  quattro pezzi, tutti a firma Mercury  Bo.Rhap, Killer Queen, The March Of The Black Queen, Bring Back That Leroy Brown – che ci restituiscono, neanche a dirlo, il talento e la versatilità di questo incredibile artista.