Febe: l’arte, la musica, la voglia di essere libera
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Durante un’afosa e svogliata serata estiva, il caso ha voluto che ci imbattessimo in una giovane cantautrice toscana, Emily Giovannoni in arte Febe, che con chitarra e voce, in un contesto difficilissimo, è riuscita ad attirare la nostra attenzione con brani tutt’altro che banali e scontati. Di lì a proporle un’intervista il passo è stato breve. Ecco quello che ci ha raccontato di lei, della sua musica, dei suoi progetti.
Iniziamo innanzitutto “Febe”, il nome d’arte che hai scelto.
Sono sempre stata un’appassionata di mitologia greca, mi piaceva tantissimo la serie Percy Jackson e gli dei dell’Olimpo e tuttora seguo tutto ciò che riguarda questa materia.
Perciò ho pensato a qualcosa che collegasse la passione per la musica a quella per la mitologia. Febo era un appellativo di Apollo e significa “luminoso” e, anche se i miei testi sono piuttosto dark, questo nome che rimanda alla luce esprime ciò che la musica rappresenta nella mia vita.
Abbiamo letto che ami l’arte nelle sue diverse forme, cosa ti ha spinto a scegliere la musica come mezzo espressivo privilegiato e qual è stato il tuo percorso fino ad oggi?
Perché la musica? Credo non si sia trattato di una scelta, è qualcosa che ho dentro di me fin da bambina, quando disegnavo cantando le storie che illustravo sui fogli, in pratica ero già una piccola cantautrice in erba! In quarta elementare iniziai a suonare la chitarra e il maestro mi incoraggiò anche a cantare, ma è stato solo intorno ai sedici anni che ho iniziato a prendere lezioni di canto e da lì mi si è aperto un mondo. Mi sono resa conto che per cantare non bastava essere intonati e il lavoro da fare era tantissimo. È stato allora che ho cominciato a cimentarmi anche nella scrittura.
Qual è stato il tuo primo pezzo?
Il primo fu Not that brave. All’epoca mi piaceva un ragazzo ma non riuscivo a dirglielo, così ho buttato in musica quello che sentivo.
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Successivamente ho deciso di rimetterci mano e portarla in studio, ma non sapevo ancora bene come muovermi: a diciassette, diciotto anni, non avevo le idee chiare su che genere fare, dove poter registrare… Nel 2020 ho ripreso in mano carta e penna e finalmente, nel 2021, ho conosciuto uno studio a Rufina (FI), il BlairWitch House Studio: sono ragazzi molto in gamba, ho ascoltato le loro produzioni e mi sono piaciute tantissimo, perciò ho deciso di affidarmi a loro e ne è venuto fuori il mio primo EP, Drowning. Qualche canzone era già abbozzata, come appunto Not that brave e Is this living life, le altre sono arrivate dopo.
Hai curato personalmente anche l’arrangiamento di questa tua prima produzione?
L’arrangiamento è prevalentemente opera dello studio, io contribuisco con le mie idee, cerco di far capire come vorrei che “suonassero” i brani, anche attraverso le reference tracks di altri artisti. Solo da poco sto cominciando ad occuparmi anche dell’arrangiamento, smanettando un po’ su Garage band, ma sono alle prime armi da questo punto di vista, perciò poi interviene la mano del mio produttore.
E per la parte video?
Anche per i video mi aiuta lo studio, ma sono laureata in graphic design e multimedia, però partecipo attivamente alle idee, al concept; ad esempio il video di Is this living life l’ho pensato e filmato io rifacendomi a Pas de deux, un video sperimentale di Norman McLaren, con quest’eco che rimane dietro la scia del movimento. Gli altri sono più semplici, music video classici.
Perché scrivi in inglese?
Sono cresciuta ascoltando musica inglese, è stata il mio imprinting. Ora come ora non mi viene proprio di pensare ad un testo in italiano. Ma mai dire mai!
Quali sono i tuoi principali punti di riferimento musicali?
Domanda complessa, vado un po’ a periodi, nei nuovi pezzi sentirete l’influenza dei Nothing But Thieves, che è un gruppo inglese alternative rock, ma anche di Billie Eilish per alcuni elementi elettronici, e dei Linkin Park.
Pensando al passato, i Queen sono un riferimento assoluto, ma anche George Michael. Può sembrare un bel minestrone, sono artisti così diversi tra loro, ma nella mia testa tutto questo ha un senso!!
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Come nascono le tue canzoni?
Quando mi viene in mente qualche frase che mi piace, l’annoto subito e quello può essere il punto di partenza, altre volte inizio da un giro di chitarra molto semplice e comincio a canticchiarci sopra anche cose senza senso, poi recupero i miei appunti e comincio a lavorare sul testo. Spesso è la musica a suggerirmi il testo. Ultimamente ho bisogno di focalizzarmi in modo totalizzante sul pezzo, senza interruzioni o distrazioni, e in un giorno lo finisco.
Quindi le tue canzoni sono estemporanee
Sì, parto da un’emozione e faccio fuoriuscire tutto quello che ho dentro. Poi giro la demo allo studio con le mie indicazioni per cercare di restituire al meglio l’emozione, lo stato d’animo che voglio esprimere con quel determinato brano. Per Drowning ho lavorato così, per l’EP nuovo stiamo provando a seguire un filone musicale più specifico, sto cercando il mio suono in modo più definito.
Lo fai per ricercare il sound che meglio ti rappresenta, che senti più tuo, o per essere più riconoscibile da chi ti ascolta?
Entrambe le cose. In qualche modo devi essere anche una sorta di brand, fare qualcosa che ti sta bene addosso, essere autentica ma al tempo stesso riconoscibile.
Parliamo un attimo dei tuoi testi decisamente crepuscolari, venati da una profonda tristezza esistenziale.
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È vero, i miei testi sono lo specchio di questa fase della mia vita. Da quando ho iniziato a scrivere mi porto dietro una malinconia di fondo e la musica ha sempre rappresentato un appiglio per me, che si trattasse di ascolto o di scrittura, la musica mi ha sempre offerto uno scopo per stringere i denti e andare avanti. Peraltro Rising from the depth, il brano che chiude il vecchio EP, porta con sé una nota più positiva rispetto agli altri, perché racconta di come il dolore possa a trasformarsi in arte.
Parliamo del nuovo EP
Ho già pronti quasi 3 brani e c’è più omogeneità, come dicevo, rispetto al precedente: c’è tanta rabbia sia a livello di testi che di arrangiamento e questo mi piace molto. Se con Rising from the depth c’era uno spiraglio di speranza, con le nuove canzoni torna il disagio, la disillusione che questa volta, però, si trasformano in rabbia.
I tuoi obiettivi per il 2025?
L’uscita del nuovo EP, credo in primavera, e la relativa promozione. In passato ho seguito canali tradizionali e devo dire che per il brano What If la promozione radio è andata piuttosto bene, per un’artista indipendente come me. Adesso, per i nuovi pezzi, vorrei affidarmi prevalentemente ai canali social (https://linktr.ee/febemusic), attraverso appositi contenuti. Al momento credo sia l’unico modo, per gli artisti indipendenti, di farsi notare, il mercato è talmente saturo che è difficilissimo attirare l’attenzione. Al giorno d’oggi bisogna essere tutto, cantautori, social media managers, grafici, videomakers; io ci provo, ovviamente con i miei limiti.
Pensi mai di provare ad esportare i tuoi brani all’estero, dal momento che scrivi in inglese?
Mi piacerebbe molto, qui in Italia ci sono un sacco di porte chiuse per scrive solo in inglese, credo non ci sia la voglia di osare, dal punto di vista discografico esiste una comfort zone oltre la quale non si va. Ed è un peccato, perché questo atteggiamento preclude la strada a tanti prodotti made in Italy adatti anche per l’estero. Per fare esempi illustri, Elisa all’inizio scriveva in inglese e anche i Måneskin, ma poi, in Italia, gli artisti “devono” scrivere in italiano. Lasciata l’Italia i Måneskin hanno fatto un album con la maggior parte dei pezzi in inglese. La creatività deve essere libera, la musica, l’arte sono un mezzo per essere liberi, non possono essere forzati in canali obbligati, anche solo linguistici. Sinceramente non riesco a capire questa chiusura mentale.
Tante volte mi è stato detto che i miei pezzi sono interessanti ma che qui in Italia non possono funzionare, “Scrivi ad etichette straniere”, come fosse facile muoversi e farsi notare all’estero, con zero contatti. Ciò detto, la voglia da parte mia di uscire dall’Italia c’è, io qua mi sento un uccellino in gabbia. Speriamo, ce la metterò tutta, chissà…
E noi te lo auguriamo di vero cuore cara Febe!