Il Selvaggio Ovest della Maremma: intervista a Daniele Pasquini
Con grande piacere torniamo a conversare con gli scrittori e lo facciamo in compagnia di Daniele Pasquini, che abbiamo incontrato in una delle presentazioni di Selvaggio Ovest, sua ultima fatica pubblicata all’inizio di quest’anno e selezionata per il Premio Bancarella 2024. Un romanzo di cui vi abbiamo già proposto la lettura e che ci ha spinto a volerne sapere di più direttamente dalla viva voce di Daniele, che ringraziamo per aver trovato il tempo di soddisfare la nostra curiosità.
Soffermandoci brevemente sul tuo percorso di autore, vogliamo ricordare ai nostri lettori il tuo esordio, poco più che ventenne, con la pubblicazione nel 2009 di Io volevo Ringo Starr cui è seguito, qualche anno dopo, l’e-book Le rockstar non muoiono mai. È pressoché d’obbligo chiederti, visti gli interessi del nostro blog, quale sia il tuo rapporto con la musica e cosa ti ha spinto ad utilizzarla come espediente narrativo nei tuoi primi romanzi.
Ho iniziato a scrivere molto giovane e solitamente, scherzando, dico che l’ho fatto perché andavo male in matematica; in realtà da adolescente, come succede più o meno a tutti, ho cominciato a pormi delle domande, a sentirmi incompreso e ad affidare i miei pensieri alla scrittura. Solita vecchia storia. Quello che però volevo fare veramente, a quel tempo, era suonare. A quattordici anni, da autodidatta, ho iniziato a strimpellare la chitarra, ho messo su una band, pensando che il mio modo di esprimermi per ricomporre la frattura tra me e il mondo fosse quello; ben presto però ho dovuto scontrarmi con la dura realtà, ero un pessimo chitarrista.
Per questo i miei esordi letterari erano segnati dalla musica. In Io volevo Ringo Star la mia intenzione era far sì che la musica diventasse il filo conduttore di una storia d’identità, mentre in Le rockstar non muoiono mai ho utilizzato il mondo del rock e la famosa storia del “Club dei 27” per parlare del rapporto tra pubblico e privato, del desiderio antitetico, comune un po’ a tutti, di esserci e apparire da una parte e di scomparire dall’altra.
E mi sono reso conto che gli immaginari funzionano, perché sono talmente radicati dentro noi da poter essere utilizzati come volano per raccontare altre storie.
Nella raccolta di racconti brevi Ripescati dalla piena, pubblicata nel 2014, hai affrontato il tema del passaggio dall’adolescenza all’età adulta, da quella fase della vita in cui tutto sembra ancora poter accadere a quella della disillusione: una riflessione forse particolarmente sentita in relazione all’età in cui li hai scritti.
Un meccanismo narrativo che appartiene a tutti è quello della nostalgia, un modo che abbiamo per raccontare a noi stessi una versione diversa del passato. Io me ne sono reso conto più tardi, ma di fatto a ventiquattro anni avevo la nostalgia per i miei quattordici, in cui rivedevo un’età idilliaca di spensieratezza. Quando mi sono trovato ad affrontare le prime difficoltà che la vita mi ha presentato, ho iniziato a riflettere sul significato del diventare adulti con un’intensità inaspettata.
Poi c’è un altro aspetto: i racconti di Ripescati dalla piena sono stati anche un modo per raccontare l’effetto che su di me aveva la provincia, che da un lato è relazione dall’altro è giudizio, è comunità ma anche trappola, perché c’è sempre la sensazione che dalla provincia si debba scappare perché è piccola, ti sta stretta, e allora senti il bisogno di andare a Firenze, poi magari a Milano, dopo a Londra, per rendersi conto, alla fine, che ogni luogo è provincia di un altro e che il tuo centro non lo trovi in un determinato contesto geografico, ma solo quando tu sei centrato con te stesso e con gli altri.
Quando ho scritto Ripescati dalla piena erano anni in cui mi stavo ponendo grossi interrogativi su di me, sulle mie opportunità, sul tempo che io e tanti ragazzi e ragazze stavamo vivendo; la mia generazione è stata la prima a vivere sulla propria pelle le conseguenze della crisi economica del 2007, e quella che era adolescente al G8 di Genova, l’11 settembre. La prima senza un forte protagonismo politico, e la prima, dopo quasi un secolo, ad avere di fronte un futuro peggiore rispetto a quello dei propri genitori: allora quella situazione io la mettevo in relazione con la vita di provincia. Quei racconti nascevano dal disincanto, dalla mia lettura dello spirito precario dei tempi.
Intendevi quindi questo quando in uno dei racconti scrivevi che “la provincia non è un area geografica ma uno stato dell’anima”?
Questa riflessione in particolare si trova all’interno del racconto intitolato On the road, che era un omaggio ad un festival che si teneva a Pelago, dove i miei genitori non volevano che andassi perché considerato pericolosissimo… Anni dopo ho scoperto che quel festival è stato per cinque o sei anni un evento cult in Europa perché luogo d’incontro di controculture e ho saputo di una ragazza olandese che, grazie a quel festival, conosceva benissimo Pelago e Pontassieve; per lei quindi la mia provincia era in realtà il luogo più vitale del mondo.
Poi nel 2022 è uscito Un naufragio, romanzo nel quale utilizzi lo stereotipo dell’isola deserta come mezzo per scandagliare in profondità la tematica della relazione di coppia, dell’allontanamento, della crisi ma anche della riscoperta. Come hai sviluppato questa’ idea e perché la scelta di un set così estremo?
Sono partito dalla suggestione di un sogno e mi sono accorto che poteva avere un potenziale narrativo. Inoltre si trattava di un tema che mi riguardava da vicino dal momento che, come i protagonisti, anch’io mi ero sposato da poco e, in un momento da grande felicità personale la domanda che mi scuoteva era “E se finisse?” Il senso della fine delle cose, dell’usura del tempo è in generale un aspetto che sento molto.
Certo, avrei potuto ambientare la storia in un appartamento ma, anche chiusi in casa, ci sono comunque delle vie di fuga; l’isola deserta era invece lo scenario naturale per “denudare” i due protagonisti e metterli a confronto facendo ripartire il dialogo dai gesti, quelli essenziali di cura come procurarsi il cibo, accendere un fuoco.
Per me non è stato semplice scrivere quel romanzo perché dovevo prendere le distanze dalla storia dei due neosposi che stavo raccontando quando anch’io ero neosposo a mia volta, il rischio di immedesimazione era molto alto. Ho impiegato tre anni a completarlo proprio per la difficoltà di trovare la giusta distanza tra l’autore e il narratore.
Veniamo al tuo ultimo libro, Selvaggio Ovest. Fermandosi al titolo, potremmo aspettarci una storia ambientata nel Far West, invece ci ritroviamo nella Maremma di fine ‘800. Vuoi raccontarci com’è nata l’idea di una simile ambientazione?
L’idea del libro nasce dall’amore per la letteratura americana, di alcuni autori in particolare: Cormac McCarthy, Larry McMurtry, A.B. Guthrie. Quell’immaginario su di me ha avuto una grossa presa e ho sentito il desiderio, che magari può apparire anche scontato, di scrivere un libro come quelli che amo leggere. Ci tengo a precisare che non sono un amante del genere western. Il genere western mi interessava come meccanica da sfruttare, ma non potevo fare un western ambientato in America perché mi sarei sentito ridicolo. Attraverso una serie di suggestioni che si sono rincorse nell’arco di un paio di anni, mi sono convinto a scrivere un western ambientato in Maremma notando delle corrispondenze tra i due mondi, tra butteri e cowboys, tra briganti e fuorilegge. Ho capito che i due immaginari potevano dialogare e trovare il loro punto d’incontro nella tournée di Buffalo Bill in Italia.
Mi sono reso conto che c’era terreno fertile per scrivere una storia che ricordasse il respiro epico di alcune narrazioni western pur partendo da un ambiente molto diverso, come quello rurale della Maremma di fine Ottocento.
Il tuo non è un romanzo storico ma ha presupposto un grande lavoro di ricerca. Quali sono state le maggiori difficoltà della ricostruzione storica e quale gli aspetti più curiosi, se ci sono stati?
La parte più divertente è stata quella relativa ai carabinieri. Avevo trovato molto materiale sulla loro storia nella Toscana in quegli anni ma non le informazioni di base sulla vita e sugli aspetti operativi dei vari livelli gerarchici: ad esempio, cosa fa un brigadiere o un allievo?
Alla fine sono riuscito ad avere un confronto con il Museo Storico dell’Arma dei Carabinieri di Roma, attraverso una serie di passaggi di documenti, lettere, carte bollate e via dicendo, culminato a ridosso della stampa con una telefonata all’alba da parte di un carabiniere che mi ha risolto un unico dubbio.
Avevo storicamente già appurato l’acquisto di cavalli per l’esercito da parte dell’Arma e mi stavo chiedendo che ruolo avessero nella gerarchia i preposti a tale servizio. La risposta è stata: “Il ruolo non ha importanza. Tu le conosci le barzellette sui carabinieri? Ecco, quello che conta è che i carabinieri sono sempre in due”.
La parte più bella della ricerca è stato vedere come tutte le cose che leggevo, finivano per combinarsi tra loro in modo naturale.
Abbiamo già accennato alle vicende principali del romanzo in occasione della nostra recensione al libro e qui non vogliamo aggiungere niente per non svelare troppo ai nostri lettori, ma ci piacerebbe soffermarci per un attimo su alcuni personaggi, iniziando da Occhionero. Da dove hai tratto ispirazione?
Mi sono ispirato ad una figura molto popolare in Maremma, quella di Domenico Tiburzi e la cosa che mi ha colpito è che, nel raffronto tra brigante italiano e fuorilegge americano, la figura del primo risultava molto più complessa del classico “cattivo” del western. Il brigante era sì un fuorilegge agli occhi dello Stato, ma era una risorsa per la popolazione, spesso addirittura un eroe.
Mi è servito molto leggere alcuni libri e parlare con persone che mi hanno raccontato del Tiburzi, grazie ai racconti familiari che si sono tramandati di generazione in generazione. Era molto famoso, e lo era in un luogo in cui la narrazione era solo orale: perciò il brigante per me è diventato non solo il cattivo della storia, anche se molto chiaroscurato, ma anche un personaggio che, a sua volta, è una storia vivente, ha una sua dimensione leggendaria e letteraria.
L’altro aspetto di differenza che ho voluto inserire è che mentre nel western tradizionale si ha una contrapposizione netta tra bene e male, Occhionero li incarna entrambi e ne è consapevole, essendo lui l’arbitro di quella terra.
Veniamo ai personaggi femminili: Leda e Gilda, l’una una donna fatta l’altra una ragazzina, accumunate da una grande forza interiore, alimentata dall’amore nel primo caso e dalla disperazione nel secondo. Come sono nati e sono venuti delineandosi questi personaggi durante la scrittura?
Nel western i personaggi femminili sono essenzialmente di due tipi: la prostituta e la fanciulla da salvare. Gilda nasce dalla mia scelta di sommarli insieme. In particolare volevo che fosse il personaggio che ricerca la propria identità non attraverso la parola ma attraverso un gesto e che il suo gesto violento fosse fortemente simbolico per rimediare alla violenza storicamente perpetuata dall’uomo sulla donna. Dalla brutalità del suo gesto poi lei dovrà ripartire.
Leda invece esprime pienamente la vita contemplativa, che non significa passiva; al contrario Leda ha chiaro che esiste un tempo in cui agire con la mente e con il cuore. Leda è anche il nome di mia nonna, che è mancata qualche anno fa, mentre il romanzo è dedicato a mio nonno Bruno che è morto esattamente un anno prima dell’uscita del libro. Mia nonna era una persona molto pia, anche se sicuramente diversa dalla Leda del romanzo: eppure io sapevo che, come lei, nello scontro finale con Rogo, anche mia nonna avrebbe pregato. Se per Gilda non ho tratto un’ispirazione forte da persone reali, in Leda ci sono sicuramente degli echi di una figura familiare.
Un aspetto che ci ha molto colpito di questo romanzo è il valore dei gesti come veicoli dei sentimenti e dei legami più profondi. È stata una conseguenza della caratterizzazione dei personaggi, o si è trattato di un’intenzione precisa?
Sì, era voluto fin dall’inizio, è l’idea da cui sono partito. Il silenzio di Penna “parla” molto meglio delle parole vere e proprie: non è solo un aspetto del personaggio – che è taciturno, ai limiti del mutismo – è anche una rinuncia consapevole, come quello del Bartleby di Melville, o della “Letteratura del No” di cui parlò Vila-Matas. È anche un silenzio che parte dalla consapevolezza dell’importanza decisiva che le parole hanno, e dei rischi e delle opportunità comportate dal “dire”; dal lato opposto c’è la figura di Buffalo Bill, un uomo che è stato talmente raccontato e straparlato da diventare personaggio di sé stesso, rappresentazione e racconto romanzesco. Ogni gesto di Buffalo Bill è stato raccontato e magnificato, esagerato e mistificato. Mentre le azioni di Giuseppe dovevano farsi carico di tutta una serie di sentimenti senza che questi venissero verbalizzati.
Nel ringraziarti della tua disponibilità vogliamo chiudere questa nostra chiacchierata con un’ultima domanda. Ci hai raccontato, all’inizio di questa intervista, che hai iniziato a scrivere da adolescente “incompreso” per rispondere ad un bisogno, una necessità: cosa è oggi per te la scrittura?
Un’opportunità che mi è capitata nella vita, quella di poter moltiplicare le esistenze attraverso il racconto. L’idea che a partire dalla parola sia possibile vivere mille vite, per riempire di senso quella che abbiamo. Che poi, alla fine, è anche il dono stesso che ci è offerto dalla lettura.
Non è un talento speciale, quello di raccontare storie. Ognuno di noi ha la capacità innata di farlo, è ciò che ci distingue come specie; io oggi l’ho fatto attraverso il romanzo, c’è chi lo fa con i film, in radio, al bar, chi in pausa pranzo, chi a tavola a cena: la cosa davvero speciale non è che io racconti una storia, ma che qualcuno la legga e le dia valore, che diventi perciò narrazione condivisa.