Parlando di scrittura: a tu per tu con Mattia Mazzali
Qualche tempo fa vi abbiamo proposto la sua prima opera, L’Anno di Vincenzo Mura (Ed. Phasar, 2005), questa volta, complice la sua cortesia e disponibilità, abbiamo il piacere di “ospitarlo” sul nostro blog.
Parliamo di Mattia Mazzali, nato a Magenta nel 1976, nella vita ingegnere con la passione per la scrittura o, come forse sarebbe più corretto dire, almeno a noi pare così, uno scrittore con la passione per l’ingegneria! Sì, perché il suo romanzo ci ha davvero colpito per la capacità di osservare, per il suo sguardo interiore e sul mondo capace di cogliere le sfumature, per i particolari, gli stati d’animo e la capacità di raccontarli con una narrazione fluida e piacevolissima.
Ciao Mattia, grazie innanzitutto per aver accolto il nostro invito a raccontarci un po’ di te e perdonerai la nostra prima domanda, sicuramente un po’ scontata ma anche inevitabile. Nella tua biografia scrivi di essere “inciampato nella scrittura quasi per caso”: qual è stata la molla?
Ciao a tutti e grazie a voi per questo invito che accolgo con grande piacere: gli scrittori sono tutti un po’ narcisisti e amano tanto parlare di sé (in fondo è per questo che scriviamo!). Ma veniamo alla prima domanda. Confermo di essere inciampato per caso nella scrittura, è proprio così, e l’ho fatto quando, dopo il liceo, ho iniziato a leggere per passione e non più per costrizione. La molla è scattata lì, quando la mia fantasia è entrata in contatto con questi nuovi mondi, mondi che mi appassionavano e che riuscivo quasi a “vedere”. Mi è germogliato dentro uno stimolo inatteso: quello dell’emulazione. Ero troppo entusiasta e giovane per non provarci.
La lettura di autori come Baricco, De Carlo, Irving, Nothomb e Hornby è stata per te una grande fonte di ispirazione: cosa ami di questi autori e in che modo pensi abbiano influenzato il tuo approccio alla scrittura?
Scorrere questi nomi uno dopo l’altro mi fa un certo effetto: un po’ come leggere l’elenco delle proprie ex. Ognuno di loro, ognuno a modo suo, mi ha trasmesso qualcosa. Baricco è stato il primo grande amore, e di lui ho adorato la capacità di farmi sognare (OceanoMare, Castelli di Rabbia, Novecento … sono storie per grandi sognatori) oltre alla sfrontatezza della sua scrittura. Con lui ho capito che scrittore avrei voluto essere, anzi di più: con lui ho capito che volevo essere, uno scrittore. Di De Carlo e Irving (ma ho avuto un flirt estivo anche con Kundera) ho amato il loro sguardo sul mondo, la capacità di rappresentare la realtà in un modo a me familiare, un punto di vista che io riuscivo perfettamente a decifrare: con loro ho capito che i miei pensieri erano più condivisibili di quanto pensassi. Della Nothomb amo l’ironia e la trasparenza del suo linguaggio, quella maniera quasi colloquiale di rivolgersi al lettore: con lei ho realizzato che il rapporto autore/lettore può essere personalizzato a piacimento, basta che funzioni. In ultimo Nick Hornby, che ho scoperto tardivamente ma che amo alla follia. Lui è tuttora il mio grande amore letterario. In Nick Hornby ritrovo tutto ciò che ho detto sugli altri autori: ironico, visionario, sognatore e disincantato al tempo stesso, con un occhio e una scrittura assolutamente personali. Con lui ho capito che lo scrittore che penso di essere (o perlomeno che ho l’ambizione di essere) trova consenso nel pubblico: è stata una liberazione, per me, e in maniera del tutto irrazionale trovo il suo successo un mio piccolo successo, perché mi mette in armonia con il mondo. Prendendo spunto da Austin Powers (guarda un po’ che citazioni balorde che vi propongo) mi sento molto un mini-hornby.
L’Anno di Vincenzo Mura è stato il tuo primo romanzo, che hai autopubblicato nel 2005 accompagnandolo con una tripla prefazione legata a sua volta ad una sorta di esperimento: una prefazione rivolta al potenziale editore, una per il potenziale acquirente del libro, l’utente finale per eccellenza, la terza per chi il libro l’avrebbe ricevuto gratuitamente per effetto del tuo invio di una cinquantina di copie, sparpagliate per tutta Italia. Come ti è venuta questa idea e che tipo di riscontro ha avuto, dal momento che era esplicito l’invito ad un feedback nei diversi casi?
Sì, una bella idea in effetti: mettere autore e lettore a contatto. L’autopubblicazione nacque con un obbiettivo minimale, ossia quello di produrre un semilavorato gradevole da spedire poi alle Case Editrici. Con i primi stipendi decisi di provarci. Il progetto poi si evolse nei mesi successivi, pensando di aggiungere al manoscritto anche il parere di lettori indipendenti che, non conoscendomi, avrebbero fornito un parere imparziale (possibilmente positivo). Da qui alle tre prefazioni il passo fu breve. Un progetto ambizioso e un po’ ingenuo. Visionario, ma ne vado davvero orgoglioso. Con le Case Editrici non è andata bene, come credo si sia potuto intuire a quasi 20 anni di distanza, ma in compenso mi sono tolto tante belle piccole soddisfazioni: quasi 800 copie vendute (è servita una seconda ristampa), alcune presentazioni davvero emozionanti (in una, un lettore mi chiese di leggergli una pagina del libro dove parlavo dell’amicizia: pagina 155, per chi avesse interesse), un discreto numero di mail ricevute da gente sconosciuta (persone che avevano ricevuto il libro da amici di amici, e mi dedicavano del tempo per scrivermi, per dirmi che era una bella idea, che il libro gli era piaciuto), ma soprattutto una collaborazione durata diversi anni con una professoressa di Firenze, che via via diede da leggere il libro ai suoi alunni e ad ogni fine anno organizzò un Incontro con l’Autore (e non vi dico l’emozione di essere accolti in una classe di liceo da un applauso con tanto di standing ovation).
Conservo gelosamente tutte le mail ricevute, alcune davvero appaganti, personalissime.
Sono seguiti altri sei romanzi e una ventina di racconti, due dei quali pubblicati, (Interno 3, presente nella Raccolta LA CONTESSA DEL CAMPO DEI FIORI pubblicata nel 2007 da Giulio Perrone Editore e Classe 1970, pubblicato nel 2017 da Edizioni Il Vento Antico). Una notevole produzione nel giro di una quindicina d’anni che ti ha visto partecipare anche ad alcuni concorsi letterari. Pensi che tali sedi abbiano costituito un “onesto” banco di prova per la tua scrittura e che tipo di consapevolezza hai maturato a seguito di tali esperienze?
In tutti questi anni da esordiente allo sbaraglio ho capito solo di non averci capito niente. Non mi sono chiare le regole del gioco, non ho capito se sia davvero un gioco pulito o ci siano regole che non posso governare. Ma non voglio imbrattare la mia passione con dietrologie da genio incompreso: nel complesso credo di non essere stato particolarmente fortunato, né particolarmente bravo, né particolarmente caparbio. Quel che è certo è che la mia scrittura si è evoluta nel tempo, anche grazie alle critiche (alcune feroci) di amici, siti letterari, case editrici: ora la mia scrittura è più matura, più pulita, ma in compenso ha perso di energia. Nel Vincenzino, ad esempio, ritrovo delle frasi che oggi non saprei più scrivere. Un po’ come i dischi dei cantanti rock: il primo è sempre il manifesto del proprio io più autentico!
Come probabilmente ti sarai reso conto, se hai avuto modo di “sfogliare le pagine” di questo blog, il fil rouge che le tiene unite è rappresentato dalla passione per l’arte, per la creatività nelle sue molteplici forme, dalla voglia di dare spazio al talento e di addentrarsi, per quanto possibile, nel processo che sta dietro ad ogni espressione artistica. Per questo è giocoforza chiederti: cosa alimenta la tua scrittura? Il piacere, la necessità, entrambe le cose o cos’altro ancora?
Ho sfogliato le pagine di questo blog, e ho sentito il profumo di un luogo accogliente, caldo, pieno di passione. Mi ricorda un sito letterario che ho frequentato per anni. Complimenti sinceri. Ma mi riporto sulla domanda. All’inizio tutto è nato come una sfida (ce la faccio?) ma ben presto ho capito quanto la scrittura fosse un’espressione della mia persona. Nel corso del tempo ho sperimentato la scrittura come piacere (partecipando ad alcuni laboratori), ho sperimentato la scrittura come strumento (partecipando a dei concorsi, alcuni anche a tema), ma nel complesso scrivo per necessità. Ad un tratto, dal niente, sboccia un’idea (un’immagine, un titolo), e come un granello di polvere mosso dal tempo prende forma nei pensieri (di notte, in macchina) e cresce fino a inceppare gli ingranaggi della mia vita quotidiana: è lì che sono obbligato a dare sfogo alla mia scrittura. Il piacere sta nell’arrivare alla fine, nel sentirsi in pace con se stessi, e qualche volta nel rileggere dopo anni alcuni passaggi dei tuoi vecchi libri e pensare “però … mica male! Ma davvero l’ho scritto io?”.
Come nascono i protagonisti dei tuoi romanzi e racconti? Si tratta anche nel tuo caso di “personaggi in cerca di autore”?
Assolutamente. Mi rivedo molto nelle parole di Vasco Rossi, quando canta “le mie canzoni nascono da sole, vengono fuori già con le parole” (Una Canzone per Te). Sarà una versione un po’ naif dell’artista illuminato, ma è come se i miei personaggi esistano prima ancora che io inizi a raccontarli, e li conoscessi solo via via, scrivendone. Per come la vedo io, il blocco dello scrittore è semplicemente la presunzione dell’autore di voler raccontare una storia che non esiste, che non gli appartiene, e non appena decide di lasciarsi guidare dai personaggi – che la storia la sanno davvero – il libro prende vita e corre rapido sulla tastiera. Lo scrittore è solo uno stenografo pazzo, che sente delle voci e le riporta.
E Maurizio e Vincenzo (ndr: i due protagonisti del romanzo L’Anno di Vincenzo Mura) da dove arrivano?
Riallacciandomi alle risposte precedenti, il germoglio di questo libro sta addirittura nel titolo. Ero al mare, e non so come ma ho realizzato questo titolo evocativo, e me ne sono innamorato. Tornato dalle ferie ho iniziato a sviluppare una trama, provando a conoscere Vincenzo (Maurizio inizialmente non esisteva neppure). Volevo raccontare di questo ragazzo dai comportamenti discutibili, senza però fornire ai lettori alcun tipo di giustificazione: la sfida stava nel riuscire a farli affezionare a un protagonista che non aveva alcuna voglia di farsi voler bene. Ben presto capii che non ero in grado di raccontarlo, io stesso non riuscivo ad amarlo: il libro non prendeva forma, non c’era verso. Quando finalmente realizzai che non ero la persona giusta per raccontare Vincenzo, invece di abbandonare l’idea decisi di recuperare un co-protagonista, o piuttosto un co-narratore, e la scelta cadde su Maurizio, suo compagno di classe. Fu di fatto la svolta: in tre mesi il libro era finito (lascio a voi il giudizio sull’esito), e credo di aver comunque raccontato una bella storia sull’amicizia. Se invece devo darvi una risposta più pragmatica, Maurizio sono io, mentre Vincenzo è quello che ogni tanto vorrei essere.
Da lettori si è spesso portati a ritenere che in ogni libro in cui la vita, in tutta la sua complessità e molteplicità di sfaccettature, emerge prepotentemente, l’autore riversi sempre una notevole dose autobiografica: nel tuo caso è così o la tua ispirazione attinge direttamente da un mondo parallelo a quello della vita reale?
Ho già fatto outing su Maurizio, ma avendo scritto diverse storie (alcuni con personaggi femminili) posso dire che in ogni libro c’è comunque sempre qualcosa di personale. In alcune pagine arrivo all’autobiografia spinta, ma in generale i miei manoscritti mi rappresentano: rappresentano il mio pensiero, il mio modo di guardare il mondo, il non volersi prendere troppo sul serio. Chi mi conosce e legge i miei libri mi ritrova molto in ciò che legge, e questo mi piace. Allargando però l’orizzonte, e guardando alle storie che racconto, tendo sempre a mettere i miei personaggi in situazioni limite. Dunque in definitiva potrei dire che la mia ispirazione nasce spesso da una domanda: e se succedesse che …
Ripensando alle tue aspettative di scrittore esordiente e al percorso fatto in quasi due decenni, pensi che avresti dovuto credere di più nelle tue possibilità?
Ahia. Domanda crudele, per un finale di intervista, ma accetto con piacere la sfida. Sì, senza ombra di dubbio avrei dovuto crederci di più. Mi tengo strette le mie convinzioni da esordiente incompreso, perché quelle aiutano a dormire la notte, ma con lo spirito autocritico che credo debba abitare negli uomini della mia età ritengo mi sia mancata quella dose di presunzione/ignoranza/follia che deve spingere gli artisti a superare gli ostacoli e i pregiudizi. Vero è che gli scrittori sono per lo più artisti introspettivi, per lo più timidi e poco inclini all’autocelebrazione (a parte Baricco, si intende). E io questo sono rimasto: un ragazzo timido che alle medie portava gli occhiali. Ma voglio aggiungere un aspetto, e con questo vado in contraddizione con la vostra bellissima presentazione introduttiva: in tutta onestà credo di essere più un ingegnere calcolatore padre di famiglia piuttosto che un romanziere squattrinato in cerca di fortuna. E questa è una morale poco romantica, certo, ma molto umana e perfettamente in linea con gli epiloghi dei miei libri, dove spesso i protagonisti pagano il conto salato della realtà: bisogna credere nei propri sogni, ma fino a che prezzo?
Io non ho voluto scoprirlo fino in fondo, perché non è nella mia indole razionale. Ma mi voglio comunque un bene dell’anima: per averci provato, esattamente a modo mio, e per essere ancora qui, a distanza di anni, con una nuova storia in testa.
Mai dire mai! In fondo la storia della letteratura è piena di esempi di “fioriture tardive” e al tempo stesso straordinarie. Con questo, che vuol essere il nostro augurio al tuo talento e alla tua sensibilità, ti ringraziamo per essere stato con noi.