“Vite Rubate”, Guanda Editore 2023 – Intervista agli autori Marco Vichi e Leonardo Gori
Completare la lettura di un romanzo e avere l’opportunità di parlarne con l’autore è al tempo stesso un piacere e un privilegio e in questo caso la soddisfazione è doppia. Sì, perché ospiti della nostra pagina sono due autori che non necessitano certo di presentazioni e che, con estrema disponibilità e cortesia, hanno accettato il nostro invito.
Stiamo parlando di Marco Vichi e Leonardo Gori, penne di assoluto rilievo del noir italiano e non solo, la cui prolifica produzione letteraria ha recentemente portato all’uscita del romanzo a due voci Vite Rubate, edito da Guanda Editore all’inizio di quest’anno.
Non sappiamo se possa considerarsi una domanda d’obbligo, ma ci viene spontaneo innanzitutto chiedervi come sia scaturito il progetto di un romanzo a quattro mani.
VICHI – Confesso di aver “venduto” il nome di Leonardo prima che lui lo sapesse. La prima edizione era di “Edizione Ambiente”, ho bussato alla loro porta proponendo un romanzo sulle nuove schiavitù scritto a quattro mani, e quando loro hanno accettato il progetto ho chiamato Leonardo.
GORI – Posto di fronte al fatto compiuto, ho dovuto per forza accettare: occuparmi di personaggi e temi lontanissimi da quelli per me consueti, era una vera e propria sfida, e le sfide mi piacciono. Ma il vero e proprio salto nel buio è stato raccontare l’oggi, la contemporaneità. Ne valeva la pena, la sfida ha dato notevoli frutti.
Peraltro una sorta di “dialogo a distanza” si era già delineato in precedenza, attraverso un’interazione fatta di “intrusioni” reciproche dei vostri personaggi più noti, il Commissario Bordelli e il Capitano Bruno Arcieri, l’uno nei romanzi dell’altro; un’invenzione letteraria che può farvi considerare antesignani dei crossing over nelle attuali serie tv. Potete raccontarci com’è nata quell’idea?
VICHI – È nata per gioco: quando anni fa venni a sapere che Leonardo stava scrivendo un romanzo ambientato nel periodo dell’Alluvione (L’angelo del fango), gli ho detto che se Bruno Arcieri veniva a Firenze in quel periodo non poteva non incontrare Bordelli, e così è stato. Poi la scena del loro incontro è stata raccontata pari pari nel romanzo del commissario Bordelli (Morte a Firenze), anche se ovviamente ribaltata.
GORI – …con tutte le differenze del caso: i dialoghi di quella memorabile prima scena in comune sono gli stessi, sia ne L’angelo del fango che in Morte a Firenze, ma ciò che si “vede” è un po’ diverso. Per esempio, quando Arcieri suona il campanello della casa fiorentina del commissario, lo trova in pigiama, mentre nella versione di Marco è in mutande…
Tornando invece a Vite Rubate: durante la lettura, se non ci fosse la copertina a ricordarcelo, non si ha la percezione che dietro alla scrittura ci siano due penne diverse, il che fa immaginare un’ottima intesa e conoscenza reciproca. Qual è stato, se c’è stato, l’aspetto più complicato di una scrittura a due voci e quale invece il lato più stimolante?
VICHI – Non è stato complicato, ognuno ha raccontato un personaggio, lo ha seguito, lo ha vissuto dall’interno scrivendo a casa propria, ma scambiando con l’altro i vari capitoli, poi le ultime pagine le abbiamo scritte in due, facendo un po’ di ping pong.
GORI – È andata esattamente in questo modo. Ma almeno per quanto mi riguarda, il rileggerci a vicenda, capitolo dopo capitolo, ha migliorato di molto l’alchimia della scrittura, contribuendo a rendere il romanzo fluido e allo stesso tempo coerente. Il tutto senza scalette, senza concordare altro che pochi punti e svolte narrative. Un piccolo miracolo, visto che ancora oggi quasi tutti sbagliano, attribuendoci la paternità dei due personaggi…
Veniamo alla storia, il racconto di un amore e di un difficile riscatto ma soprattutto un viaggio all’inferno nell’Italia dello sfruttamento e degli immigrati. Anche se non ci è parso un romanzo di denuncia in senso stretto, né di colpevolizzazione sociale, vero è che nella modernissima e civilissima Italia, sottoscrittrice, tra i tanti trattati, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e, in anni più recenti, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, il vostro romanzo arriva diretto come un pugno allo stomaco, gettando luce sulle nuove schiavitù.
VICHI – La criminalità, la corruzione, il malaffare, non contraddicono gli ideali di un paese, per fortuna. Quelle che abbiamo raccontato sono realtà nascoste, mondi sotterranei che non riusciamo a vedere con chiarezza. Riguardo al modo di raccontare, abbiamo cercato di tenere presente il magnifico esempio di Primo Levi, che ha raccontato il Campo di sterminio senza appesantirlo con accuse e lamentazioni, con la conseguenza di coinvolgere il lettore costringendolo a partecipare all’orrore.
GORI – La chiave di scrittura è stata proprio questa: siamo sfuggiti all’ “enfasi, al teatrale, al romanzesco”, come scriveva Ignazio Silone, parlando delle narrazioni engagées. Uno sguardo obiettivo e distaccato, nel descrivere una realtà, ha quasi sempre molta più forza di una precisa presa di posizione. D’altronde la realtà nuda fa assai più orrore di qualsiasi finzione. Ci siamo calati nei rispettivi personaggi e abbiamo provato una profonda compassione, in senso letterale.
Il fatto di scegliere come protagonisti Marek ed Aleya, polacco lui, nigeriana lei, è stato un modo per evidenziare come il fenomeno dello sfruttamento sia assolutamente trasversale, senza distinzione di pelle o provenienza e quindi, di conseguenza, capillarmente esteso e dilagante nelle sue articolazioni territoriali ed organizzative?
VICHI – In effetti sì, volevamo raccontare l’ingiustizia e la sua infinita estensione.
GORI – Certamente sì. Oggi forse parleremmo anche dello sfruttamento dei giovani italiani… L’ingiustizia prospera quando si volge lo sguardo da un’altra parte, e in questo modo ci rendiamo complici.
Ci sono poi due momenti nella storia di Aleya su cui vorremmo soffermarci: quando la ragazza viene prelevata dal centro di accoglienza, appena giunta in Italia, e successivamente quando fuggendo, aggredita da un cliente, cerca aiuto dapprima presso una casa, poi fermando una macchina delle forze dell’ordine. Questi due passaggi accendono per un attimo un riflettore sulla connivenza nel primo caso e sull’indifferenza nel secondo (nel caso delle forze dell’ordine viene da dire entrambe). Quale atteggiamento vi sembra preponderante nella nostra società?
VICHI – Gli atteggiamenti e i comportamenti sono individuali, estenderli a una società intera vorrebbe dire cadere nell’errore della generalizzazione, una tendenza umana che cerca di facilitare l’interpretazione del mondo. Anche nella stessa famiglia possono esserci due persone che affrontano le ingiustizie in modo del tutto diverso.
GORI – Forse, come ho detto prima, l’atteggiamento più diffuso, nei confronti delle nuove schiavitù, è proprio l’indifferenza, o meglio la fuga da ciò che ci scorre davanti, che è un mondo parallelo al nostro. Ma dall’epoca in cui scrivemmo la prima versione di Vite rubate, è diventato molto più difficile volgere altrove lo sguardo.
Un’ultima domanda o, per meglio dire, una curiosità: pensate che questa collaborazione diretta sul testo, potrà avere un seguito, magari per una nuova avventura del Commissario Bordelli e del Capitano Arcieri?
VICHI – Nei romanzi di Arcieri e Bordelli, a partire dall’Alluvione ci sono stati intrecci sempre più complessi… ci divertiamo così.
GORI – Concordo al cento per cento. Il romanzo di Arcieri e Bordelli è già stato scritto: è sotto i vostri occhi, sotto forma di ben ventiquattro libri (se non sbaglio), con intrecci quasi sempre scoperti ma a volte ben nascosti. Vi sfidiamo a trovarli tutti.