I “Fuori Categoria”: David Sylvian – Secrets Of The Beehive
Anno di pubblicazione: 1987
Casa discografica: EMI/Virgin
Produttore: Steve Nye
Foto di copertina: Nigel Grierson
Da sempre l’essere umano ha il bisogno istintivo di classificare, ordinare, creare una mappa mentale per potersi orientare di fronte a ciò che gli si presenta davanti; ma definire significa anche, inevitabilmente, limitare e a questo processo non si sottrae certamente la musica. Da qui le numerosissime categorie ed etichette cui abbiamo fatto ricorso anche noi nella sezione “Unforgettable” per provare ad orientarsi nel mare magnum della cosiddetta “musica leggera” (ecco che spunta un’altra definizione!) Talvolta però capita di imbattersi in artisti o album che sfuggono a facili catalogazioni, che ci spiazzano e al tempo stesso ci affascinano per la loro unicità o per aver dato vita a nuove aperture e commistioni musicali.
È questo il caso del quarto album solista di David Sylvian (al secolo David Alan Batt), Secrets Of The Beehive, I Segreti Dell’Alveare.
Sylvian, star di successo agli inizi degli anni ‘80 con i Japan, all’indomani dello scioglimento del gruppo si ritira dalle scene in una sorta di eremitaggio artistico fino a diventare, negli anni, vero e proprio artista di culto. Secrets Of The Beehive è come una galleria d’arte in cui l’autore ci espone dieci lavori di grande pregio; in termini pittorici, potremmo dire che il filo conduttore è il chiaroscuro, con leggeri bagliori che sembrano comparire, appena accennati, in lontananza, ma senza squarci di luce o tinte vivaci. Infatti tutto l’album è pervaso da un senso di quiete apparente, con un continuo sovrapporsi di tessiture sonore per lo più affidate a pianoforte, chitarra acustica, archi e contrabbasso. In alcuni brani però Sylvian utilizza anche “colori diversi”: ne è esempio The Boy With The Gun, con la chitarra elettrica di David Torn (audace musicista ambient), oppure When The Poets Dreamed Of Angels, con la chitarra acustica di Phil Palmer, poliedrico session man presente in moltissime produzioni degli anni ‘80 e ‘90.
Pare che durante la fase di pre-produzione Sylvian avesse già pronta la struttura di tutti i brani con la sola chitarra ad accompagnare la voce e questo probabilmente spiega la scelta di puntare ad un’opera senza tanti fronzoli. Si tratta di un album essenziale ed elegante, con una sonorità al di fuori dalla sua epoca e attualissimo ancora oggi. Meravigliosa è l’alchimia tra la voce di Sylvian, calda e virata sui registri bassi, e l’orchestra diretta da Ryuichi Sakamoto, compositore e attore giapponese, che ha curato l’arrangiamento dell’album. E’ di Sakamoto il pianoforte che introduce la brevissima September, piccolo gioiello di poco più un minuto per voce, pianoforte e orchestra; “Diciamo di essere innamorati mentre in segreto desideriamo la pioggia” canta Sylvian, e ci lascia già intravedere il tema di fondo dell’album, ossia l’inquietudine, il senso di incompiutezza, di dualità dell’anima. E il disagio continua nella successiva The Boy With The Gun, storia di un serial killer a cui la vita ha negato un’infanzia felice e che è solito scrivere il nome delle vittime sul calcio della pistola (“Io sono la legge, io sono il re, io sono la speranza, ascoltatemi cantare”) e con Maria, dalle atmosfere cupe, una canzone d’amore che nasconde un velo di irrequietezza, con un finale brusco che spiazza l’ascoltatore.
La successiva Orpheus è forse la vetta più alta di tutto l’album, con Sylvian che si accompagna alla chitarra acustica e sussurra una melodia affascinante, con il pianoforte scarno di Sakamoto e l’orchestra a disegnare un sottofondo emozionante. Il brano, in cui compare per la prima volta nell’album la batteria, anche se minimalista, mostra l’audacia di Sylvian che lascia posto alla fine del primo ritornello al silenzio meditativo di quattro (!) battute prima di riprendere il cammino.
L’album, pur mantenendo una cifra stilistica riconoscibile, è segnato da momenti variegati, come ad esempio il solo contrabbasso a sostenere la voce in Mother And Child oppure l’incedere lento e maestoso dei fiati in Let The Happiness In, o ancora il frammento sonoro all’interno di The Devil’s Own con una misteriosa voce, probabilmente registrata su un vecchio nastro, che intona frammenti di un’altra canzone… A chiudere l’album Forbidden Colors, brano già compreso nella colonna sonora del film Furyo (1983) e qui riproposto in una versione riarrangiata. Rimane intatta la melodia del tema portante del pezzo dai richiami orientaleggianti. “I Segreti Dell’Alveare” è ancora oggi un assoluto capolavoro che ci conduce all’interno di quel gigantesco chiaroscuro che è l’animo umano, come quest’ultimo misterioso e meravigliosamente indefinibile.