I “Fuori Categoria”: Quintorigo – Rospo
Anno di pubblicazione: 1999
Casa discografica: Universal
Produttore: Mauro Pilato e Max Monti
Foto di copertina: Alessandro Gerini
Accostandosi alla musica pop il cervello è abituato istintivamente ad aggrapparsi ad alcuni riferimenti sonori, con le ovvie variazioni sul tema. Di conseguenza è normale, dopo essersi messi all’ascolto dei Quintorigo per la prima volta, essere pervasi da un certo senso di smarrimento, a partire dalla peculiarità della formazione: una voce, tre archi ed un sax!
I membri dell’ensemble, originario di Bologna e nato nel lontano 1992, sono John De Leo (al secolo Massimo De Leonardis) alla voce, Andrea Costa al violino, Gionata Costa al violoncello, Stefano Ricci al contrabbasso e Massimo Bianchi al sax. Cinque musicisti un po’ folli che amano creare commistioni tra i generi, forti di un solido bagaglio sia classico che jazz, e che nel 1999 si trovarono non solo a calcare il palco del Festival di Sanremo con un brano (Rospo) tutt’altro che sanremese, ma che addirittura vinsero pure il premio della critica per il migliore arrangiamento. Se, come ironizzava Frank Zappa, “Parlare di musica è come ballare di architettura…”, nel caso dei Quintorigo tentare di descrivere il loro mondo sonoro è come camminare sulle sabbie mobili.
L’album di cui ci occupiamo oggi, Rospo, il primo in ordine di tempo, è stato pubblicato nel 1999 ed è quello che ha segnato l’inizio del viaggio dei Quintorigo nella musica italiana, un viaggio che da lì in poi si dimostrerà variegato e sperimentale, quasi restìo ad abbandonarsi a certezze rassicuranti.
L’unico punto fermo da cui iniziare il viaggio è la natura totalmente acustica degli strumenti, ma questa è l’unica concessione alla normalità: con la prima traccia, Kristo Sì!, si viene travolti da una ritmica nervosa, disegnata dagli archi, e dalle acrobazie vocali di De Leo, camaleontico quanto basta per recitare più parti all’interno dello stesso brano.
Questa impronta si accentua ancora di più nella traccia successiva, Rospo, un fantomatico principe pronto a tornare nello stagno pur di non affogare nel conformismo e nelle miserie degli esseri umani. La ritmica qui è decisamente rock, gli archi sono sicuramente effettati (distorsione e wah wah), e De Leo si mostra come il degno erede del compianto Demetrio Stratos, con le corde vocali in continuo equilibrio tra il canto lirico, il falsetto e lo sberleffo. Il tutto suonato e cantato con una convinzione ed una compattezza da non far rimpiangere una sezione percussiva vera e propria.
Con Zapping, brano interamente strumentale, le sonorità si spostano verso la moderna avanguardia, con continui cambi di atmosfera (dal valzer al free jazz più estremo) e con il sax di Bianchi a disegnare linee soliste che svolazzano sopra i continui cambi di tempo del gruppo.
Altro momento di grande impatto è sicuramente Deux Heures De Soleil, brano bifronte, caratterizzato dall’alternarsi di una ritmica granitica e voce distorta di De Leo da una parte, e di archi appena sussurrati, con il sax di Bianchi a fare da timido contrappunto alla voce rilassata del cantante, dall’altra. Il tutto a sottolineare i contrasti del testo: “Fitti boschi, praterie / Bruschi muri, raffinerie / Arti inerti, statici/ Come rifiuti tossici”. Quasi in chiusura dell’album c’è il posto per una cover, niente meno che Heroes di David Bowie, restituita con gusto e personalissimo stile.
L’oggettiva bravura dei cinque protagonisti e l’originalità delle composizioni non può che spingerci verso questa gemma nascosta della musica italiana, una vera e propria avventura sonora, dai risvolti sorprendenti.