Lorenzo Forti: Vita da Session Man
Da tempo gli “facevamo la corte” e lui, con l’umiltà e la riservatezza che lo contraddistinguono, fino all’ultimo ha tentato di dribblare questo appuntamento; poi, in amicizia, ha dovuto cedere!
Lorenzo Forti, fiorentino d.o.c, polistrumentista ma con il basso elettrico come strumento d’elezione, è nato con la musica nel sangue o, quantomeno, a portata d’orecchio.
Sotto la guida e l’influenza del padre Maurizio, apprezzato musicista e chitarrista, componente della band Gatti, Giusti, Forti – gruppo Jazz-Prog degli anni ‘70 e ‘80 – e sotto lo stimolo e l’esempio anche di altri musicisti e amici di famiglia, uno su tutti Alberto Ferrarese, musicista e voce della band, si è avviato allo studio della musica ancora molto piccolo.
Qual è stato il tuo primo strumento?
Inizialmente la chitarra classica, avevo circa sei anni e sulla chitarra ho appreso i primi rudimenti musicali, poi lo studio del pianoforte per quattro anni e alla fine, intorno ai sedici anni è arrivato il basso elettrico che è diventato a tutti gli effetti il mio strumento.
Cosa ti ha portato ad avvicinarti proprio al basso elettrico?
Mi sono innamorato dei Beatles e del basso di Paul Mc Cartney… mi incuriosiva e quella è stata la molla. Ho iniziato a studiare sotto la guida di Walter Poli e ho sempre avuto il supporto fondamentale di mio padre. Solo molti anni dopo mi sono deciso a studiare anche contrabbasso classico presso il Conservatorio Cherubini di Firenze dove ho conseguito il diploma triennale.
Quindi hai iniziato a studiare il basso elettrico da adolescente ma negli anni ‘90, poco più che ventenne, eri già un musicista professionista…
Sì, devo dire che non ho fatto una lunga gavetta: nel ‘91 ho iniziato a scrivere un metodo per basso, edito due anni più tardi (ndr: Slap & Tapping – Bèrben Editore, 1993) e sempre nel ‘93 ho iniziato l’insegnamento presso la Scuola di Musica Lizard di Fiesole; quello stesso anno ho avuto il mio primo ingaggio da professionista per il tour di Alessandro Canino. Agli inizi degli anni ‘90, l’ambiente musicale fiorentino era molto fertile: pensa ai vari Raf, Masini, Vallesi, Litfiba, Dirotta su Cuba, Irene Grandi… All’epoca, forse, era relativamente più semplice entrare per così dire “nel giro”.
Che ricordo hai di quella prima esperienza?
Bellissimo! Suonammo prevalentemente nel Sud Italia, con l’aggiunta di una data internazionale in Canada, a Toronto, dove c’è una comunità di italo-americani molto numerosa. Mi ritrovai a suonare in un parco davanti a ventimila persone…
Immagino l’emozione…
Stratosferica, un effetto ubriacante: da un parte non vedi l’ora che sia finita, dall’altra vorresti che non finisse mai. Quando comincia il concerto entri come in un’altra dimensione, completamente assorto e concentrato sulla musica, è difficile da spiegare a parole.
Cosa ti ha lasciato quella prima esperienza?
Ho imparato tantissimo, in fondo avevo poco più di vent’anni e non avevo piena consapevolezza di quelle che dovevano essere le caratteristiche di un buon bassista professionista: a ventitré anni andavo “velocissimo”, ero in grado di sfoderare tutto il mio bagaglio tecnico, ma spesso l’esperienza professionale ti chiede tutto tranne il virtuosismo; al tempo stesso ti accorgi che anche le esecuzioni apparentemente più semplici, sul palco richiedono cura, precisione, pulizia, ben oltre quello che si può immaginare. Questo mi fece capire quanto tecnicamente no, ma professionalmente sì, avessi da imparare e ricordo una data a Firenze, al Sachall, in cui ero letteralmente terrorizzato.
E come ne venisti fuori?
Eh, niente, semplicemente non puoi scappare.
Ma alla fine sei riuscito a razionalizzare?
No, panico allo stato puro! Poi però la magia che si ripete ogni volta è che, quando inizi a suonare, ti passa tutto.
Alla fine la tensione si trasforma in adrenalina?
Beh, nel mio caso, caratterialmente, sono più portato alla concentrazione che non all’esaltazione e piuttosto tendo a riassaporare successivamente, ripensandoci a posteriori.
Dopo Canino con quali altri artisti hai collaborato?
Ho fatto una breve esperienza con Paolo Vallesi, poi nel ‘97 sono partito in tour con Laura Pausini: due mesi in Sudamerica, poi in Europa… Ricordo in particolare l’esperienza spagnola: per circa un mese abbiamo girato in lungo e in largo su uno sleeping bus, esibendoci nelle Plazas de Toros. Molto bella fu anche la serata all’Olympia di Parigi.
Poi sono seguiti tre anni di tour con Irene Grandi.
Con lei, sulla fine degli anni ‘90, mi è capitato di suonare all’autodromo di Imola, prima del concerto di Vasco Rossi, davanti ad una folla oceanica… puoi immaginarti l’emozione.
Quando il lavoro ti porta così a lungo lontano fuori casa, a contatto prolungato con gli altri membri della band e dell’artista di turno, che tipo di rapporto tende ad instaurarsi?
Non c’è una regola, talvolta si crea un clima familiare che si riflette positivamente anche sull’affiatamento sul palco, altre volte si rimane solo ad un rapporto strettamente professionale.
Hai partecipato anche ai Festival Bar?
In molte occasioni, soprattutto nella seconda metà degli anni ‘90. Ai tempi si trattava di una partecipazione molto ambita ed enfatizzata; ricordo Piazza del Plebiscito, a Napoli, gremitissima per l’occasione.
Quindi, facendo un rapido calcolo, quasi dal nulla, nel senso che non sei passato dalla classica gavetta nei locali che solitamente precede l’attività da professionista vera e propria, ti sei ritrovato pressoché costantemente in tour per circa 7 anni…
Sì, e forse proprio per questo, alla fine ho sentito l’esigenza di staccare per un po’. Inizialmente l’idea era quella di fare una vacanza a Londra, con l’intenzione di rimanerci per un mese: ho finito per viverci per tre anni. Di fatto interruppi tutti i rapporti professionali che avevo al momento, cosa che non mi ha esentato da critiche: in fondo stavo lavorando assiduamente da diversi anni e sicuramente, vista dal fuori, è apparsa quasi una scelta folle, ma non me ne sono mai pentito. Io credo che la crescita come musicista vada di pari passo con quella umana e quei tre anni sono stati un capitolo importante a livello personale. Non è certo stato semplice reinventarsi a Londra, ma è stata un’esperienza assolutamente formativa anche musicalmente parlando: sono entrato in contatto con l’underground londinese e ho avuto modo di suonare con musicisti bravissimi oltre che molto simpatici, cosa che non guasta mai…
E quando sei tornato in Italia, da dove sei ripartito?
Beh, come dicevi tu, nella mia carriera ho iniziato subito a fare cose significative senza alcun tipo di gavetta; al mio rientro, come in una sorta di inversione temporale, sono ripartito dall’underground fiorentino, portando avanti in parallelo sia l’attività di insegnamento, che attualmente svolgo presso l’Accademia Musicale di Scandicci e di Firenze, che quella di registrazione ed incisione per cantautori emergenti e non. Tuttora registro tantissimo, qualche tempo fa, ad esempio, ho inciso due pezzi per l’album di Andrea Bocelli “Sì”. Piacevolissima è stata anche l’esperienza con Paola Cortellesi, in occasione della registrazione di “Le fiabe di Aisha”, un progetto per aiutare i bambini affetti da cardiopatia congenita, con la Cortellesi non solo voce narrante, ma anche interprete delle canzoni dell’audio-libro.
Com’è lavorare in sala di registrazione?
Fantastico, invecchiando è la cosa che mi entusiasma di più. La maggior parte delle volte hai un pezzo che non conosci: di tanto in tanto ti mandano il provino prima, altre volte no e allora vai in sala di registrazione, lo ascolti e a quel punto metti il tuo strumento, secondo la tua sensibilità e in base alle richieste del produttore artistico.
E che succede se non riesci ad entrare nel pezzo?
È bene che non accada!! Talvolta capita una sorta di “buona la prima” e va tutto bene fin da subito, altre volte ci vuole più tempo, ma in tutti i casi il risultato deve essere portato a casa, anche perché sai che diversamente sei supersostituibile in qualsiasi momento.
E quindi cosa succede in sala di registrazione: cominci a suonare, fin da subito ti registrano e poi viene scelta la versione migliore?
Dipende: a volte suoni convinto che il pezzo venga già registrato e pensi “ah, questa era fantastica, girava benissimo,” poi magari ti senti dire “va bene ci siamo quasi, fra un po’ iniziamo a registrare”, e allora capisci che ti stanno ancora facendo girare. Però dai, è divertente.
Quindi anche questa attività è ricca di soddisfazione… Nell’immaginario collettivo c’è un po’ l’idea che il live rappresenti il top per un musicista, invece anche questa dimensione può essere molto gratificante…
Assolutamente sì!
Quindi, dopo il rientro in Italia, hai definitivamente abbandonato l’esperienza dei tour?
No, non è esatto, nel 2014 sono tornato in tour con Morandi: abbiamo fatto diverse date in Italia e una anche in Russia.
Cosa puoi raccontarci di quell’esperienza?
Innanzitutto mi ricordo che si presentò del tutto inattesa e repentina: fui contattato telefonicamente due settimane prima della partenza… ancora mi viene in mente la corsa per spedire il passaporto il giorno stesso, prima della chiusura dell’ufficio postale.
Un lavoro del tutto imprevedibile: ti potrebbero chiamare domani e stare fuori casa uno o due mesi, così all’improvviso…
Sì, sono gli effetti collaterali di questo mestiere, il bello e il brutto…. Più il bello, ad onor del vero.
Com’è stato lavorare con Morandi?
Gianni Morandi è un “mostro sacro”, quindi all’inizio è difficile non rimanerne un po’ intimiditi, ma è stato un banco di prova che mi ha insegnato tantissimo. Morandi è un grande professionista e un incredibile motivatore, lavorare con lui, in qualche modo, mi ha obbligato a lavorare anche sul mio modo di essere musicista, di stare sul palco.
Un aspetto che mi ha sempre incuriosito è il modo in cui, chi come te si trova a collaborare con artisti diversi, riesca a fare proprio lo stile di volta in volta richiesto.
Beh, sicuramente ti porti dietro il tuo bagaglio e di solito hai quel lasso di tempo di una ventina di giorni per preparare il repertorio e colmare le eventuali lacune. Certo non è mai banale, pensa ad un Gianni Morandi che spazia dagli anni ‘60 ai nostri giorni e che ti porta a confrontarti con stili e periodi musicali anche molto lontani fra loro: con tutta probabilità il mio modo di suonare pezzi degli anni ‘60 è diverso da come potrebbe suonarli ad esempio mio padre, che quegli anni li ha vissuti e quello stile, per così dire, fa parte del suo DNA.
Visto che stiamo parlando di stili e di generi, quale senti più tuo?
Ti dirò, questo mestiere ti porta a diventare un po’ camaleontico, a cambiare pelle in base alle esigenze e mi verrebbe di risponderti “lo sai che non lo so più?” Riflettendoci, probabilmente il pop-rock, ma aggiungo subito che per me una discriminante molto importante è il feeling che si crea con gli altri musicisti: a volte il clima è talmente piacevole che finisci per divertirti indipendentemente da quello che suoni, anzi finisci per apprezzare anche generi più distanti da te.
Più di recente ti è più capitato di suonare all’estero?
Non in tour, ma una settimana o due all’anno, suono con altri colleghi presso l’American Bar di un famoso albergo monegasco, frequentato da molti vip, non ultimi anche musicisti di fama internazionale.
Ti è capitato di esibirti davanti a loro?
Di più: una sera notammo tra gli avventori Julian Lennon, che era lì con i suoi musicisti. Ci accorgemmo che era molto partecipe, seguiva e applaudiva la nostra esibizione, perciò venne quasi naturale chiedergli di unirsi alla band per un pezzo e lui accettò di buon grado.
Un’ultima domanda prima di salutarci: alla luce del tuo percorso ormai trentennale, cosa ti sentiresti di consigliare a chi sogna di fare il musicista professionista?
Di intraprendere un percorso di crescita musicale prima di ogni altra cosa, diventare musicisti prima di tutto, senza essere ossessionati dal desiderio di emergere a tutti i costi. Fondamentale è lavorare non solo sullo strumento ma anche su sé stessi sul proprio modo di essere musicista.
E da cosa metteresti in guardia?
Dalla cattiva competizione in cui ti puoi imbattere in questo mestiere, energie negative che possono finire per circondarti, soprattutto a determinati livelli.