Oltre la musica: Fabrizio Zanotti
E’ un vero piacere per noi di Enjoyblog inaugurare questa sezione “ospitando” un musicista di qualità come Fabrizio Zanotti, cantautore di Ivrea, classe ‘69, con una carriera ormai trentennale alle spalle e all’attivo tre album in studio, uno dal vivo, un EP, nonché un interessantissimo progetto in corso d’opera, di cui non vogliamo anticipare niente per lasciare allo stesso Fabrizio il piacere di raccontarcelo. Un artista di spessore che a pieno titolo può essere inserito nel solco del cantautorato italiano di qualità; una cifra stilistica, la sua, caratterizzata da un connubio ottimale tra musica e parole, dove l’essenzialità del testo nulla toglie alla profondità del messaggio, sostenuto da un arrangiamento mai banale né scontato.
Ciao Fabrizio, innanzitutto grazie per la tua disponibilità. Vorremmo provare a raccontare un po’ di te, del tuo percorso, dei tuoi progetti. Ti va di fare un salto indietro nel passato e tornare agli esordi o meglio ancora a quando Fabrizio-ragazzo sognava di fare questo mestiere? Com’è iniziato tutto, qual è stata la molla che ha fatto scattare in te il desiderio di fare il musicista?
Ciao! Nella mia famiglia si è sempre ascoltata tanta musica, quella più impegnata che arriva dai cantautori italiani e d’oltreoceano, ma anche il folk, il blues, il rock. E poi le chitarre non sono mai mancate, mio padre e mio fratello la strimpellano, mio zio e la maggior parte dei cugini la suonano, alcuni anche bene. Se dovessimo riunirci tutti potremmo fare come i Gypsy King! Ma il grande stimolo arriva da mio zio Lino, che mi ha regalato una chitarra 2/4 (la metà di quella normale) quando avevo 5 o 6 anni. Mi ha insegnato i primi accordi ed ero la persona più felice del mondo quando sentivo uscire quel suono brillante dalle mie dita. Non volevo più smettere, e così è stato.
Quali sono i musicisti e gli autori che più hanno influenzato la tua formazione?
Guarda, tantissimi, ho ascoltato di tutto e continuo a farlo: i cantautori come De Andrè, Fossati, Bertoli, Lolli, De Gregori, Pino Daniele, il primo Vasco, il folk della Nuova Compagnia di Canto Popolare, e durante la mia adolescenza la new wave e il rock inglese come i Cure, gli Smiths, poi i primi U2, Police, Dire Straits, Pink Floyd, e più tardi Dylan, Cat Stevens, Mellencamp, Elvis Presley, i Beatles, Rolling Stones, Springsteen. Amo tantissimo Simon & Garfunkel, quel greatest hits credo di averlo consumato, era diventato un mantra e non mi stancavo mai, lo ascoltavo a ripetizione.
Il tuo percorso artistico è iniziato negli anni ‘90, prima nel duo folk “Fabry & Banny” e successivamente nella band Stazione Marconi: che ricordo hai di quegli anni e di quelle esperienze?
Beh, tantissime e oggi mi rendo conto della fortuna che ho avuto. Tra l’altro quest’anno sono 30 anni da quando ho cominciato questo mestiere. Ho fatto davvero moltissimi concerti in tante situazioni diverse, quella è stata la mia palestra. Ho imparato a suonare stando insieme a musicisti che sapevano come funziona la musica. All’epoca si suonava di più senza badare troppo a quelle che oggi vengono chiamate location. Si suonava e basta. Il ruolo centrale apparteneva alla musica, a quello che volevi trasmettere e non alla perfomance fine a se stessa. C’era più sudore, oggi più involucro. Quando ho cominciato a suonare nel ’91, ascoltavo il folk nordamericano e i menestrelli: Woody Guthrie, Dylan, Donovan, e Joan Baez, Neil Young, i Birds. Stava nascendo il duo “Fabry & Banny” e spesso mi vedevo con Massimo Bubola a Milano, per ascoltare insieme ciò che scrivevo. Da quei confronti ho assorbito davvero tanto e mi sono serviti per sviluppare una mia poetica. Il duo aveva una bella forza, sono state tante le collaborazioni dal vivo, con Deborah Kooperman, Luigi Grechi, Massimo Bubola e con molti altri autori e musicisti. Poi c’è stata la lunga e fruttuosa amicizia con Ricky Mantoan. Con lui passavamo ore insieme a suonare nel suo studio, mentre ci insegnava molti trucchi per scovare certe sonorità, tipiche di quel sound. Poi sono cambiato, il duo si è evoluto ed è nata la band Stazione Marconi. Avevamo un repertorio di brani country-rock con un sound elettro-acustico. L’album “Viaggiatori” è uscito nel ’99 ed è stato un disco coraggioso di quel genere in italiano, credo l’unico in Italia.
Nel 2007 ha avuto inizio la tua carriera da solista con l’uscita del tuo primo album Il ragno nella stanza: perché questo titolo?
In realtà, comincia tutto nel 2003 con Foce Carmosina e il film concerto Sacco e Vanzetti canzoni d’amore e libertà. Questa esperienza è stata forte e mi ha fatto maturare il desiderio di approfondire ancora di più, verso una direzione di maggiore contenuto e ricerca. Il ragno nella stanza è il mio punto di osservazione e al tempo stesso una metafora. Il ragno si annida dentro di noi, negli angoli bui, nei luoghi più nascosti, spesso dimenticati. Avevo tanta voglia di sperimentare, di dire come la pensavo su molte questioni, soprattutto a livello sociale. Nel disco parlo di Mostar, che visitai nel 1988 prima della guerra, di immigrazione, di solitudine e nel brano Il ragno nella stanza mi chiedo quanto bisogna ancora attendere prima di osare e prendere il mano la situazione. Il verso dice “le tue dita senza unghie fanno male la piazza è vuota, nessuno parla e tutti siamo fermi qui ad aspettare”.
Il primo brano del tuo primo album si intitola Controvento: è una spinta a non fermarsi, a rimanere sempre in movimento, a ricercare…. Dopo tutti questi anni senti ancora distare andando controvento?
Si, soprattutto a mantenere viva la curiosità che mi permette di non fermarmi. Per me stare fermo vuol dire andare indietro e Controvento significa non accontentarmi della realtà che sta in superficie e cercare la verità, che invece sta più in profondità. In questo mestiere ritengo sia vitale continuare a cercare e stare in contatto con la quotidianità se vuoi raccontarla.
Sempre nel tuo primo album c’è un brano Fumo e a un certo punto un verso “fabbriche rompono tutta l’armonia che è in me”. Il tema dell’ecologia, a te molto caro, era quindi già presente fin dai tuoi primi lavori…
Si certo, anche se in realtà mi riferisco all’alienazione dell’essere umano, divorato da queste macchine che diventano sempre più indispensabili e imponenti. Iniziano anche a pensare, prendono il sopravvento, al punto di compromettere la nostra identità e infine sostituirsi alla nostra vita, ma ciò che resta è solamente fumo. Per rendere l’idea di questi gesti meccanici, abbiamo utilizzato l’elettronica mischiata con l’acustico, cercando di far convivere la linea melodica con una ritmica “meccanica” appunto. La voce e la chitarra acustica rimangono nitide al centro come in tutto l’album.
Nel 2010 è uscito il tuo secondo album Pensieri Corti. Vi sono brani come Chini Marco e Barak Obama in cui la trama musicale fresca e quasi scanzonata fa da contrappeso a testi che sottolineano la crisi economico-sociale che travolge e stravolge i sogni e la vita soprattutto delle giovani generazioni; altri come Musicalenta e Quieta la mente dove lo sguardo si sposta sul piano del singolo individuo, che cammina in solitudine, alla ricerca del suo equilibrio tra amore e ragione, tra singolo ed universo, che vuole cantare forte la sua voce, senza dimenticare il dolcissimo benvenuto ad una piccola vita che sta per schiudersi al mondo in L’universo che ora dorme. Ascoltando questo album si rimane colpiti dalla ricchezza dei suoi contenuti e dalla piacevolezza con cui sei riuscito ad esprimerli. Se a questo si aggiunge che i ricavati sono stati in parte destinati a sostenere la valorizzazione e il riutilizzo sociale del patrimonio confiscato alle mafie in Piemonte, sorge spontaneo il desiderio di sapere qualcosa di più di Fabrizio come persona oltre che come musicista e dell’impegno civile che emerge dai tuoi lavori. Insomma, chi è Fabrizio Zanotti?
Sono nato in Piemonte, di origine pugliese e a volte, queste due anime contrapposte combattono dentro di me per avere la meglio l’una sull’altra. Il risultato è più facile trovarlo nelle canzoni, in cui paesaggi mediterranei si alternano a immagini metropolitane e nelle storie si mescolano gli umori. Vengo da una famiglia che mi ha trasmesso molti valori, il senso di solidarietà, la fiducia negli altri, una forte speranza, e dove le mie scelte sono sempre state accolte e supportate. Mio padre ha fatto il sindacalista e la sua grande passione nel difendere i diritti dei lavoratori mi ha incoraggiato a ricercare un senso di coerenza nella vita. Mia madre è migrata qui dalla Puglia negli anni ’50, lei è estremamente pragmatica, al contrario di mio padre che è più sognatore. Una donna dal cuore forte che mi ha insegnato a tenere i piedi per terra. In seconda superiore, ho cominciato a vivere le prime ingiustizie e a fare le mie prime lotte. Ricordo, durante una gita, alcuni ragazzi sono tornati tardi la sera e per punirli, li hanno fatti dormire nei portabagagli dei pullman. Al rientro, l’ho raccontato a miei genitori e mio padre è intervenuto come sindacato scuola. Risultato: prima rimandato, poi bocciato. Nell’80, abbiamo ospitato per più di un anno Hana e sua figlia, argentine fuggite dalla dittatura di Videla. Lei era molto impegnata politicamente e lottava per la liberazione del suo paese. C’erano diverse famiglie, all’inizio alloggiavano tutte nello stesso luogo e per protezione usavano dei soprannomi. Ricordo quei nomi strani, le loro voci, la tenacia e la dolcezza dei loro occhi, le nostre vite che si intrecciavano naturalmente con le loro, pur sapendo poco o niente gli uni degli altri. Giravano delle chitarre, la sera le suonavano e cantavano, mentre la bombilla con il mate passava di mano in mano. Ricordo che ero a mio agio e mi sentivo abbracciato dal calore di tutta questa umanità. Eravamo controllati, i miei genitori sono stati convocati e sollecitati dalla polizia, ma non hanno ceduto, hanno scelto la solidarietà. Un giorno, in occasione di una riunione importante del partito, l’aria era diversa, erano tutti più seri. Quel giorno, è arrivato Roberto Guevara, il fratello del Che. Io ero lì, avevo solo 11 anni e facevo merenda con un budino alla vaniglia, preparato da qualche mamma, insieme agli altri bambini e bambine. Sono fortunato perché ho conosciuto tanti esempi e nel mio animo si è fatto strada il desiderio di fare musica per un fine più grande. Con le mie canzoni ho sempre preso delle posizioni e non mi sono mai preoccupato.
Tornando al tuo percorso, nel 2018 hai pubblicato Luna nuova: potremmo definirlo l’affresco di un’umanità sfaccettata, variegata, fragile, che arranca, che cade, ma non si ferma e continua a provare…
Luna nuova, è la fase in cui la luna non è visibile in cielo. Spaventa come tutti i grandi cambiamenti, ma è proprio l’inizio di un nuovo ciclo, così come da situazioni apparentemente senza speranza, nascono soluzioni rivoluzionarie. Diciamo che nelle canzoni prima dell’arrivo di Luna nuova, i personaggi vivono una condizione di passività e di impotenza. In quelle che vengono dopo, invece c’è il risveglio, la rinascita, l’apertura verso una rivoluzione di se stessi. Ma Luna nuova, devi sapere, preannunciava qualcos’altro di totalmente inaspettato: la mia rivoluzione, tant’è che molte vicissitudini presenti del disco, si sono avverate poco tempo dopo nella mia stessa vita.
Veniamo ai nostri giorni: è uscito il video Oxy bar, singolo di un progetto in costruzione denominato ESHO FUNI. Di cosa si tratta?
E’ un progetto molto ambizioso, soprattutto frutto di un percorso spirituale. Ho incontrato il buddismo di Nichiren Daishonin nel ’96 e da allora sono avvenuti molti cambiamenti profondi dentro di me. Sono nate nuove consapevolezze e l’anno scorso il desiderio di dare vita al progetto Esho Funi. Si tratta di un principio buddista, significa “due ma non due” e spiega la non dualità dell’uomo e il suo ambiente. Con le canzoni, approfondisco i legami invisibili che ci uniscono agli altri e all’ambiente in cui viviamo. Il primo singolo, Oxy bar, prende ispirazione dai neonati bar dell’ossigeno – gli oxygen bar di Nuova Delhi – in cui le persone possono entrare e consumare aria pura aromatizzata alle essenze. Un cocktail di ossigeno, ma non alla portata di tutti. Invece di pensare a come inquinare meno, cerchiamo di vendere l’aria che respiriamo.
Come sai il nostro blog si occupa di creatività a 360°. Einstein la definiva “l’intelligenza che si diverte”. Cos’è per te la creatività?
E’ una necessità. C’è una parte di me che a volte sussurra, altre volte grida perché vuole essere ascoltata. Credo che la creatività non sia un pozzo da cui estrarre materia prima all’infinito, penso invece che vada coltivata e nutrita vivendo le esperienze. Quando queste maturano, al momento giusto generano degli effetti sotto varie forme. Il mio compito è sintonizzarmi sul loro ascolto e tradurle.