Parlando di Musica con Gabriele Baldocci
È uscito il 13 ottobre scorso Ageless, l’album che segna il debutto nelle vesti di autore dell’affermato pianista e compositore Gabriele Baldocci.
Protagonista di una carriera internazionale che negli anni lo ha portato ad esibirsi su alcuni dei più prestigiosi palcoscenici del mondo, il musicista livornese è uno degli interpreti più versatili del panorama musicale contemporaneo e, peculiarità non comune, un brillante fautore dell’improvvisa-zione classica dal vivo.
Difficile riassumere in poche righe la carriera, i riconoscimenti, le collaborazioni, la discografia e soprattutto la sua personale visione musicale che, a più riprese, lo ha spinto al di là delle barriere fra generi; abbiamo provato a farlo, con il suo aiuto, nell’intervista che ci ha gentilmente rilasciato.
Abbiamo letto che la presenza in casa di un pianoforte verticale e il giradischi di tuo padre su cui si alternavano indiscriminatamente sinfonie e pezzi rock hanno rappresentato, ancora piccolissimo, il tuo primo contatto con la musica. Quando ti sei reso conto che questa sarebbe diventata la tua strada? C’è stato un evento, un episodio, oppure è stata una consapevolezza che in qualche modo hai sempre sentito dentro di te?
Non c’è stato un momento clou in cui ho capito che quello doveva essere il mio destino, penso di essere nato con quell’idea e quella predisposizione. A tre anni giocavo con questo pianofortaccio di casa, riproducendo ad orecchio le classiche canzoncine da bambini, le sigle dei cartoni animati, e i miei si resero conto che il gioco in realtà era molto più serio.
Io insistevo per andare lezione ma nessuno mi prendeva, tutti dicevano che ero troppo piccolo. Poi finalmente, a sei anni, trovai un insegnante disponibile e di lì è stata tutta una strada in salita e al tempo stesso in discesa, perché è stata una strada difficile ma è andato tutto come volevo che andasse.
Ti sei formato in prestigiose istituzioni sia in Italia che all’estero, sotto la guida di illustri insegnanti; hai vinto numerosi concorsi nazionali ed internazionali e, fra questi, un decisivo spartiacque è stata la menzione d’onore conferitati, poco più che ventenne, da Martha Argerich al concorso a lei intitolato. Da lì ha preso avvio anche una lunga collaborazione artistica con la pianista argentina, considerata una delle interpreti più autorevoli del nostro tempo e attenta promotrice di giovani talenti. In che modo la vicinanza a quest’artista ha influito sulla tua crescita professionale e umana?
Quando ho iniziato la mia amicizia e il mio sodalizio artistico con Martha ero molto giovane e il suo supporto mi ha dato una grandissima fiducia in me stesso oltre alla consapevolezza di aver intrapreso la strada giusta ma, soprattutto, Martha è stata in assoluto la persona che più ha forgiato il mio modo di intendere la musica e di essere musicista.
Non solo, è stata anche un grandissimo esempio di vita. È una persona di una generosità incredibile, caso più unico che raro nel mondo della musica classica, così competitivo e feroce, in cui è veramente difficile trovare persone che, senza alcun tipo di tornaconto, riconoscano il merito e il talento altrui e facciano qualcosa per gli altri. Nei limiti delle mie possibilità, provo a portare avanti il suo esempio, cercando di essere molto vicino ai giovani, supportandoli e consigliandoli. A mia volta vorrei essere per loro tutto quello che avrei voluto rappresentasse per me il mondo della musica in senso lato, ma che ho trovato, quasi esclusivamente, solo nella figura di Martha.
Ci ha molto colpito il fatto che la tua discografia spazi da contenuti prettamente classici, ad esempio le opere per pianoforte a quattro mani di Ottorino Respighi o le trascrizioni per pianoforte di Liszt delle sinfonie di Beethoven, ad incursioni nel rock, come nel caso dell’album Sheer Piano Attack – Queen Piano Tribute. Inoltre la tua prolifica attività ha incluso nel tempo numerose collaborazioni con il mondo della musica rock, ad iniziare da quella con Anthony Phillips, ex chitarrista dei Genesis, a quella con Peter Straker, attore e cantante londinese vicino all’ambiente dei Queen, e amico personale di Freddie Mercury. Senza dimenticare l’esperienza in veste di tastierista ed autore per il gruppo di progressive rock, The Gift!
Ci è parso un approccio alquanto insolito per un pianista classico e assolutamente degno di plauso, ma i confini fra generi musicali sembrano ancora molto difficili da abbattere. Pensi che questo sia da ascrivere ad un certo snobismo, alla convinzione che esista una musica di serie A ed una di serie B, o a tuo avviso ci sono ragioni diverse?
Ho dovuto lottare e attendere di aver raggiunto una certa notorietà prima di azzardarmi a far capolino in altri ambienti, proprio perché ho sempre percepito un certo snobismo nel mondo classico. Nell’ambiente più prettamente sinfonico delle sale da concerto, delle grandi stagioni concertistiche, per molti anni c’è stata una certa riluttanza nell’abbracciare altri mondi, e ritengo che questo abbia determinato anche un allontanamento del pubblico, perché il messaggio che passava era un po’ questo: “Se non capisci questa musica non sei degno di venire ad ascoltarla”.
Credo poi che debba essere rivisto l’approccio al concerto classico in sé: la sacralità che lo avvolge, come se l’artista sul palco fosse qualcosa di intoccabile, tutto il rituale connesso, compreso il vestirsi “da pinguini”, sono aspetti ormai anacronistici. Ciò che conta veramente è la musica, non come viene presentata.
Una concezione di questo tipo non può che allargare le maglie della fruizione musicale, avvicinando al mondo concertistico ascoltatori lontani dalla musica classica e viceversa…
Personalmente mi sono assunto, come piccola missione culturale, quella di affacciarmi anche in altri mondi senza mai fare il crossover, ma presentando in altri contesti una musica che, magari al primo impatto può sembrare più accessibile, ma in realtà poi è la stessa che più o meno potrei presentare in una sala da concerto. Anche l’album Sheer Piano Attack, nonostante sia stato promosso come un progetto che ha che vedere con i Queen, e non potrebbe essere diversamente, in realtà deriva da un pensiero preciso: “Cosa avrebbe fatto Liszt, se avesse voluto trascrivere i Queen per pianoforte?”
E ho constatato che questo ha avuto un buon riscontro anche nell’ambiente classico dove, se si mantiene un certo livello di qualità e soprattutto se si suona bene e si scrive bene, perché questo è fondamentale, simili operazioni alla fine possono funzionare.
Un altro aspetto interessantissimo, che ricorre nel tua visione musicale e nei tuoi concerti, è il binomio musica classica – improvvisazione, come nel caso del recital Around Beethoven. Abituati ad associare l’improvvisazione al jazz, rapportata al repertorio classico come tradizionalmente concepito, la stessa sembra quasi una contraddizione in termini: puoi dirci qualcosa di più di questa tua particolarissima prerogativa?
L’improvvisazione per me è una necessità, un’urgenza, nel senso che l’ho sempre fatta fin da bambino, ed è un modo di esprimermi che mi viene molto naturale.
Certo, non essendo un pianista jazz e non essendomi formato specificamente con quel linguaggio, le mie improvvisazioni hanno altre derivazioni, sono quasi tardo-romantiche, abbastanza farcite, virtuosistiche, però su materiale anche pop, e questa è una cosa che sorprende molto il pubblico.
Mi piace l’idea dell’impermanenza, di qualcosa che viene eseguito in un concerto e rimane legato a quella sala e all’energia che si viene a creare in quel determinato momento. Spesso e volentieri i brani sono proposti dal pubblico, normalmente chiedo due o tre suggerimenti e poi improvviso su quei temi, mescolandoli o usandoli in modo polifonico.
Veniamo ad Ageless, prodotto da The Cage Records e, come accennavamo all’inizio, uscito nell’ottobre scorso. L’album comprende undici tue composizioni e prende il titolo dall’omonimo brano dedicato ad Ezio Bosso, scomparso nel 2020. “Senza età” è un’espressione evocativa di tutto ciò che di bello rimane, al di là del tempo che passa, la musica, l’arte, gli affetti… È corretta quest’interpretazione?
Assolutamente. Tutto l’album è basato su ritratti musicali di varie figure, persone che fanno o hanno fatto parte della mia vita, e di Livorno, la mia città natale. È un po’ il mio vissuto e, in quanto tale, trascende l’età. L’idea di Ageless è venuta anche dalla riflessione, che poi è alla base del brano dedicato ad Ezio, che quando qualcuno ci lascia, spesso troppo presto, il mondo gli invecchia intorno, quello che rimane è l’immortalità, appunto senza età, della sua eredità spirituale e artistica. C’è un brano, Time and Words, dedicato a una cara amica soprano, Barbara Luccini, che è proprio una riflessione su come il tempo sia relativo. Tutto l’album è basato un po’ su questo concetto di “tempo senza tempo”.
L’ascolto dei brani ci ha fatto pensare a quadri evocativi, affreschi dalle tinte diverse, ma tutti molto intimi. Vuoi raccontarci, più nello specifico, da dove hai tratto la tua ispirazione?
Ogni brano ha una sua fonte d’ispirazione. Nagore è una piccola miniatura amorosa per mia moglie, Nobleza Gaucha è dedicato al regista e amico Paolo Virzì e trae origine anche dal mio amore per l’Argentina dove ho debuttato, a livello internazionale, con Martha Argerich. Reflections of Rose e Time and Words sono brani rispettivamente dedicati alla cara amica Serena Rose Zerri, poetessa e cantante e, come ti accennavo, a Barbara Luccini. Ci sono poi tre omaggi alla mia città, basati su idee di Pietro Mascagni, concittadino livornese molto più illustre di me!
Ageless è il brano dedicato ad Ezio, mentre Closer to home è un’improvvisazione sul brano Close to home di Lyle Mays, grande pianista jazz, nonché pianista di Pat Metheny, scomparso anche lui nel 2020. Sleeping Beauty è dedicato alla bellezza di vedere colui o colei che si ama addormentati, mentre Valldemossa è un omaggio a Chopin.
Sono già previste delle date di presentazione dell’album in Italia?
Ageless è stato presentato in anteprima in Italia il 18 ottobre al Monk di Roma, e devo dire che è andata molto bene. Durante l’esibizione ho inserito anche un ritratto musicale, un tipo di improvvisazione che faccio spesso dal vivo, prendendo membri dal pubblico e dipingendoli come si potrebbe fare su una tela. In quest’occasione il ritratto musicale è stato quello di Amanda Sandrelli, con la quale sono legato da un rapporto di amicizia e di collaborazione anche artistica. Seguirà poi un tour, attualmente in preparazione.
Tra le tue numerose e diversificate attività c’è anche quella importantissima ed impegnativa di docente. Vivi ormai da anni a Londra dove insegni al Trinity Laban Conservatoire of Music e alla Purcell School di Londra.
Sei inoltre Fondatore e Direttore del London Piano Centre e della Milton Keynes Music Academy. Vieni poi frequentemente invitato a tenere masterclass nelle diverse parti del mondo. Al di là degli elementi più squisitamente tecnici, quali sono gli aspetti che più ti preme trasmettere come insegnante?
Insegnare è un’attività assolutamente essenziale per me e sento la responsabilità di farlo. Non nascondo anche una ragione in qualche modo egoistica: insegnare mi permette di migliorare come artista, perché significa uscire dall’Io e andare in terza persona, cercando di analizzare cosa si ascolta e non cosa si fa. Questo aumenta moltissimo la capacità di essere ascoltatori di noi stessi e di capire qual è la percezione della musica fuori dal nostro corpo. Poi l’interazione umana, soprattutto da pianista, è qualcosa che manca perché è un mestiere molto solitario, mentre io adoro mantenere il contatto con i giovani e sapere di poter esser loro di aiuto. Soprattutto, però, sento la responsabilità della fortuna e dell’onore di avere avuto alcuni tra i più grandi, incredibili e leggendari insegnanti della Terra e del dover tramandare questo sapere. La consapevolezza che, tra le decine, forse le centinaia di studenti avuti negli anni, molti di loro sono in grado di continuare a spargere quest’eredità, per me è fondamentale, mi fa sentire utile e mi rende completo.
Ultima domanda, pressoché di rito per un blog come il nostro che ambisce a rendere il talento e l’estro protagonisti delle nostre pagine: cos’è per te la creatività?
La creatività per me è la capacità di dare forma, colore e significato al silenzio dei nostri pensieri, perché è soltanto nel silenzio che si riesce a creare in purezza.